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I sei gradi di separazione e il mondo che si fa piccolo

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Nel 1929, lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy pubblicò un racconto breve dal titolo “Catene”, poche pagine di straordinaria preveggenza nelle quali spiegò la propria opinione sulla profonda evoluzione sociologica in atto in quegli anni.

“La rapidità con cui si diffondono le notizie e l’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più veloci ha reso il mondo più piccolo rispetto al passato. “E’ successo questo, quello, tutto, ma non era ancora successo mai che ciò che penso, faccio, voglio o desidero, che mi piaccia o no, possa venirlo a sapere, in pochi secondi, chiunque. E se voglio verificare qualcosa che è accaduto a mille chilometri da me, in pochi giorni posso trovarmi lì, di persona o con la mia parola, ed effettuare la mia verifica.”

È il primo accenno a quella che è divenuta famosa al mondo come la teoria dei sei gradi di separazione: la congettura secondo la quale ognuno di noi, a prescindere dalla provenienza geografica o l’estrazione sociale, è collegato a ogni altra persona del mondo attraverso una rete di conoscenze di soli 5 intermediari.

“Comunque, dalla discussione venne fuori un’idea interessante. Uno di quelli che vi partecipava propose un gioco per dimostrare che gli abitanti del globo terrestre sono molto più’ vicini l’uno all’altro, sotto molti punti di vista, di quanto lo siano stati nel passato. Dato un individuo qualunque tra il miliardo e mezzo di abitanti della terra, che vive in un posto qualsiasi, lui sosteneva di riuscire a mettersi in contatto con quell’ individuo al massimo attraverso cinque altri individui che si conoscessero tra loro personalmente.”

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La teoria del mondo piccolo

Per anni, quella di Karinthy è rimasta una bella e affascinante ipotesi da romanzo, che professava un mondo più piccolo e “intimo” di quanto i suoi abitanti fossero portati a pensare.

La svolta si ebbe negli anni ‘60, quando lo psicologo statunitense Stanley Milgram decise di implementare un esperimento sociale per confermare questa teoria attraverso una prova empirica e inconfutabile.

Milgram consegnò un pacchetto ad un gruppo di persone selezionate, chiedendo loro di spedirlo a un’altra persona situata nello stato americano del Massachusetts, dall’altra parte del paese. I soggetti scelti conoscevano il nome e la città di residenza del destinatario, ma non l’indirizzo preciso.

Lo psicologo chiese ai partecipanti di inviare il pacchetto a chi, tra le loro conoscenze, poteva essere in contatto con il destinatario o comunque viveva nella stessa area geografica.

I risultati dell’esperimento di Milgram furono stupefacenti e, a conferma di quanto profetizzato da Frigyes Karinthy, i gradi di separazione tra i mittenti e il destinatario sconosciuto risultarono essere in media 6.

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Una fitta rete di conoscenze

Nel corso degli anni, questo esperimento ha avuto tante repliche, in variabili più moderne, coinvolgendo più persone e utilizzando canali più potenti, come nel caso del test del professor Duncan Watts eseguito servendosi del servizio di posta elettronica.

Su questa pagina di Wikipedia invece, si propone una particolare versione della teoria, secondo la quale basterebbe cliccare sul primo link del corpo di qualunque pagina dell’enciclopedia digitale, per arrivare nel giro di 23 passaggi alla pagina “Filosofia”.

Ciò che né Milgram e tanto meno Karinthy potevano immaginare, era che da lì a qualche decennio sarebbe stata implementata una rete mondiale di interconnessioni che avrebbe drasticamente ridotto i gradi di separazione tra gli abitanti della terra, rendendo il mondo ancora più piccolo: i social network.

La struttura dell’internet ha potenziato e velocizzato le connessioni, sia tra le informazioni che tra le persone. I social network hanno portato questa evoluzione ai massimi storici, permettendoci di entrare in contatto con un numero infinito di persone, senza alcun limite geografico e temporale.

È del 2010 l’esperimento di due ricercatori dell’Università degli Studi di Milano che, in collaborazione con Facebook e sfruttando gli algoritmi sviluppati dal Laboratorio di Algoritmica per il Web dell’Ateneo, hanno scoperto che il grado di separazione – al giorno d’oggi- si attesta in media a 3,74.

La ricerca svolta dall’Ateneo milanese rappresenta il test più ampio mai eseguito sulla teoria dei sei gradi di separazione: Milgram, nel suo esperimento, aveva considerato un centinaio di possibili relazioni, contro i 65 miliardi di interconnessioni presenti attualmente sul famoso social network di Mark Zuckerberg e analizzate da quest’ultima valutazione.

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Siamo davvero così vicini?

A guardare i numeri e i risultati delle ultime ricerche sulla teoria del mondo piccolo, sembra davvero che i social network abbiano confermato una volta per tutte l’antico detto “tutto il mondo è paese”.

Ma le reti digitali di aggregazione sono davvero la propulsione che azzera le distanze tra gli individui?L’immensa e intangibile agorà che è il web, serve davvero a conoscere più persone e a stringere un maggior numero di relazioni? Secondo il numero di Dunbar, no!

Robin Dunbar è un antropologo britannico, professore a Hoxford, specializzato nello studio del comportamento dei primati.

Il numero di Dunbar è una misurazione teorica del limite cognitivo a cui il nostro cervello è soggetto quando si parla di stringere e mantenere relazioni sociali stabili con altre persone. Il professor Dunbar ha individuato uno stretto rapporto tra le dimensioni dell’encefalo dei primati e la grandezza dei gruppi sociali ai quali essi aderiscono.

I primati, così come gli esseri umani, avvertono il bisogno di contatto sociale, che nel caso dei nostri cugini è rappresentato dal cosiddetto social grooming: lo spulciamento che ha una spiccata connotazione sociale e che ha lo scopo di implementare la struttura associativa del gruppo.

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Gli studi di Dunbar hanno rilevato che, proporzionando le misure alla massa cerebrale del corpo umano, l’Uomo sia in grado di “tenere in vita”, in maniera stabile, un massimo di 150 rapporti sociali.

In accordo con quanto ipotizzato dallo studioso britannico, possiamo immaginare il cervello umano come un potente marchingegno capace di immagazzinare e processare una mole spropositata di dati. Un database in grado di memorizzare volti, nomi, colori e dettagli.

Ma come ogni meccanismo presente in natura, anche il nostro cervello ha dei limiti: può sicuramente ricordare i dati anagrafici e le informazioni riguardo a migliaia di persone, ma è incapace di creare e consolidare un legame intimo con ognuna di esse.

Ne consegue che, volendo ancora una volta dare fiducia a questa teoria del numero di Dunbar, saremo in grado di ricordare i nomi di tutti i nostri 2000 amici di Facebook o i 1000 followers di Twitter, ma molto probabilmente non saremmo capaci di tessere con loro un rapporto di amicizia che sia degno di tale definizione.

Questa incapacità non è figlia del disinteresse o della mancanza di empatia, ma di un oggettivo limite cognitivo del nostro “processore” che, per fare al meglio il suo lavoro, è costretto a risparmiare energie e risorse per i processi davvero importanti.

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Idee fantastiche e come trovarle

Idee fantastiche e come trovarle

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Pensa all’ultima volta che hai concepito una buona idea e che, almeno per qualche istante, ti è sembrata rivoluzionaria e innovativa. Un momento in cui tutto ti è sembrato facile e illuminato: quel lavoro che ti tiene fermo da settimane, puoi chiuderlo! Quel problema che ti preoccupa da un po’ di tempo, puoi risolverlo senza patemi!

Le migliori idee arrivano, inaspettate e folgoranti, durante i momenti più insospettabili.

Sono pronto a scommettere che quell’idea o quello stato di grazia in cui tutto era più chiaro, è avvenuto molto probabilmente durante la doccia, poco prima di addormentarti oppure facendo una lunga passeggiata.

Perché mai, in determinati momenti della giornata, siamo più propensi a dare alla luce idee geniali che ci erano precluse fino ad un attimo prima?

L’ascensore freudiano

Secondo il padre della psicanalisi, il preconscio è una struttura che fa da ponte tra l’inconscio e il conscio.

Un po’ come se la nostra consapevolezza prendesse l’ascensore, scendesse nello scantinato dell’inconscio, e portasse su degli scatoloni pieni zeppi di idee, ricordi e sensazioni che erano lì, ricoperti dalla polvere e in attesa di essere riportati alla luce.

Spesso, a risvegliare il livello del preconscio e a innescare questo “trasloco” dal basso verso l’alto, è un elemento esterno che riporta la nostra mente a qualcos’altro: un suono, un profumo, una sensazione.

Ciò che possiamo fare, per favorire il ruolo del preconscio, è abbassare le nostre difese e creare le condizioni adatte.

In quali momenti le nostre difese si abbassano e lasciano il campo al libero fluire di idee e inspirazione?

I’m thinking in the rain

La doccia è senz’altro uno dei momenti più rilassanti della giornata. Soprattutto se fatta di sera, rappresenta il traguardo meritato dopo una giornata fatta di lavoro, impegni e ritmi faticosi.

La dopamina prodotta dal nostro cervello agisce in maniera positiva sui pensieri, l’assenza di distrazioni come smartphone e internet ci permette di far viaggiare la mente da un punto all’altro.

Il suono dello scroscio dell’acqua, infine, funge da catalizzatore di idee, e per questo motivo è utilizzato spesso per favorire la meditazione.

La doccia è una sorta di camera di decompressione dopo una giornata piena di stimoli.

A letto con le idee

Il letto, così come la doccia, è un luogo che per la nostra mente rappresenta relax e comfort.

Anche in questo caso, non abbiamo dispositivi elettronici e social media a disturbarci. La mente è carica degli stimoli e delle informazioni della giornata, ma finalmente riesce a prendere il distacco che serve per avere una visione d’insieme.

Come chi, davanti ad un quadro d’artista, fa un passo indietro per poterne apprezzare nel complesso la sua bellezza.

Aggiungerei, infine, che il letto è un posto dove ci sentiamo al sicuro, protetti dall’abbraccio delle lenzuola e/o del nostro partner. In una situazione di sicurezza, la nostra mente osa arrivare a pensieri che poco prima sembravano intangibili.
Passeggiata spensierata

Un altro trucco per dare al preconscio la possibilità  di fare il suo lavoro al meglio, consiste in una bella passeggiata ristoratrice.

La californiana Standford University ha svolto una ricerca per capire la correlazione tra moto e creatività . I risultati dicono che chi cammina mentre pensa, trova soluzioni creative il 60% in più rispetto a chi rimane fermo sul posto. Non è un caso insomma se, pensando a come moltiplicare i suoi quattrini, Zio Paperone camminasse avanti e indietro fino a fare un solco nel pavimento.

Fare movimento, a prescindere che sia in un parco all’aperto o su un tapis-roulant al chiuso, favorisce ancora una volta la produzione di dopamina, allenta la tensione e aiuta a distrarsi da un pensiero che è diventato troppo centrale nella nostra mente, così da poterlo guardare da nuove prospettive.

Bonus track: Daydreaming

Gli anglofoni lo chiamano daydreaming, da noi si chiama “sognare ad occhi aperti”.

Un’attività  che chiunque si sia trovato in situazioni monotone e noiose ha conosciuto e sfruttato per fuggirle.

Passare un po’ di tempo con la testa tra le nuvole, visto da sempre come diversivo per i più distratti a scuola o al lavoro, è in realtà  un ottimo modo per alleggerire la mente da pensieri troppo pressanti o confusi. Sognare ad occhi aperti, serve inoltre a potenziare le nostre capacità  di astrazione e permette al cervello di sondare nuove strade e trovare nuove soluzioni (pensiero divergente).

La prossima volta che avrai bisogno di un’idea geniale o di un nuovo punto di vista per risolvere un problema troppo complicato, fai una doccia, un pisolino, una passeggiata o un viaggio ad occhi aperti: il tuo corpo e la tua mente te ne saranno grati, e il tuo datore di lavoro non potrà  darti dello sfaticato!

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Pensiero daltonico

Pensiero daltonico

Il prossimo ottobre per me saranno dieci anni di patente. Uno di quei traguardi che ti sorprendono come un fulmine a ciel sereno e ti spingono a considerare, più o meno seriamente, il tempo che passa e la fugacità della vita.

Il giorno prima dell’esame scritto, ricordo che il mio istruttore mi confidò un trucco per rispondere ad alcune domande particolarmente spigolose:

 

“Quando in una domanda ci sono espressioni come sempre, mai o ogni qual volta, quella domanda è falsa!”

 

Senza saperlo, l’istruttore mi diede la mia prima lezione sul pensiero dicotomico e su come riconoscerlo. Gli anglofoni, non a caso, lo chiamano black and white thinking, pensare in bianco e nero. Questa modalità di pensiero consiste nel non considerare le sfaccettature di un argomento, soffermandosi solo sui valori estremi che questo può presentare.

Il pensiero in bianco e nero che elimina le mille meravigliose sfaccettature della vita.

Una sorta di pensiero binario, secondo il quale ogni aspetto della vita è 1 o 0, giusto o sbagliato, bello o brutto. Una pericolosa semplificazione che non tiene conto del contesto e delle sfumature che ciascun argomento possiede.

Circuiti sovraccarichi

Per quale motivo siamo portati a dividere tutto in bianco o in nero?

Il cervello, lo sappiamo, è il marchingegno più potente che esista in natura. Ciononostante, come qualsiasi altro congegno, può vacillare se sottoposto ad una mole eccessiva di lavoro.

Questo accade sempre più spesso, in un contesto storico in cui abbiamo un’ampia scelta su ogni cosa. Al bar, ad esempio, possiamo chiedere un caffè espresso, un caffè lungo, macchiato, in vetro, con zucchero di canna o fruttosio.

Ne consegue che, ingolfato dalle mille decisioni giornaliere da prendere, il cervello attiva una sorta di meccanismo di difesa per ridurre al minimo il sovraccarico. Tramite questa distorsione cognitiva, il pensiero dicotomico appunto, si corre il rischio di eliminare le numerose sfaccettature del mondo che ci circonda.

 

Di conseguenza, un lavoro andato male sarà per forza di cose un fallimento su tutti i fronti, una persona scortese sarà sicuramente una persona cattiva e un cuoco che sbaglia una ricetta sarà senza dubbio un pessimo cuoco.

 

Questo funzionamento mentale di rimozione ci dona una superficiale e inesatta sensazione di sicurezza, e ci spinge a fossilizzarci su altrettanto superficiali e inesatte convinzioni.

 

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Pensieri pericolosi

Fin quando si tratta di scegliere quale caffè ordinare o quale film vedere al cinema, il pensiero dicotomico può essere anche d’aiuto per alleggerire il lavoro del nostro cervello, senza causare troppi danni.

 

Un’estremizzazione di questo concetto può però portare il pensatore daltonico a vedere il mondo con delle lenti distorsive e pericolose.

 

Ne sono ben consapevoli alcuni propagandisti che, facendo leva sulle pulsioni emotive più profonde dell’animo umano, radicalizzano alcuni aspetti della società per creare diffidenza e paura nei confronti di un obiettivo prestabilito.

Ecco che, sotto questa lente daltonica, tutti i musulmani diventano terroristi, tutti i napoletani sono camorristi e tutti gli stranieri vengono nel nostro paese a delinquere.

Rainbow Thinking

Oltre a creare solidi e insensati pregiudizi, il pensiero dicotomico ci preclude quell’ampia gamma di colori che rende il mondo un posto così unico e affascinante.

Questo porta ad un inaridimento della creatività, della fantasia e dell’empatia, con le conseguenti ripercussioni sullo sviluppo scientifico, sull’arte e sulla solidarietà tra gli uomini.

Solo sforzandoci di vedere le sfumature e i colori che sono in ogni cosa, siamo in grado di trarre il meglio da ogni esperienza e capire a fondo ogni situazione.

 

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In questo modo, un lavoro andato male ci darà gli spunti per migliorare, una persona scortese sarà probabilmente una buona persona che ha avuto una brutta giornata e un cuoco che sbaglia una ricetta sarà un buon cuoco che ha commesso un semplice errore.

Ricordiamo la filosofia cinese dello Yin e Yang: non può esserci il giorno senza la notte, la gioia senza il dolore, la luce senza il buio.

Ma ricordiamo anche che, come insegnano i latini, è nella terra di mezzo tra tutte queste estremità, nel delicato equilibrio tra due poli opposti, che l’uomo trova la virtù.

 

“Ero dentro e fuori, simultaneamente attratto e respinto dall’inesauribile varietà della vita” – Il Grande Gatsby – F.S. Fitzgerald


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Quando il lavoro si fa duro…i duri iniziano a giocare

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Nella nostra cultura, la voragine concettuale tra lavoro e gioco, è ampia e irriducibile almeno quanto quella tra le coste della Calabria e quelle della Sicilia.

Pochi temerari osano navigare le burrascose acque che dividono le due sponde, con l’obiettivo quasi utopico di unire sacrificio e divertimento.

Lavoratori disinteressati

L’incapacità (o l’impossibilità) di unire questi due aspetti fondamentali della nostra vita, porta a quella che viene oggi definita come employee engagement crisis: la perdita, da parte dei lavoratori dipendenti, di ogni forma di motivazione e soprattutto interesse in quel che fanno.

Quando il lavoro assopisce lo spirito, bisogna guardare al mondo dei giochi, per ritrovare coinvolgimento e motivazione

Le cause di questa perdita di entusiasmo?

Ritmi di lavoro insostenibili, l’assenza di comunicazione con il management, nessun riconoscimento o feedback, la difficoltà di trovare un obiettivo comune e ben preciso.

L’agenzia americana di analisi e consulenza del lavoro Gallup, ha stimato che nel mondo solo il 13% dei lavoratori dipendenti si sente engaged, ossia realmente coinvolto e interessato ai meccanismi e allo sviluppo della propria azienda.

Il lavoro è un gioco

Prendete una persona che conoscete e che è realmente entusiasta del suo lavoro. Tralasciando per un attimo il lato economico e il prestigio che una posizione lavorativa può presentare, quali sono gli aspetti che lo gratificano?

Probabilmente vi parlerà del piacere della sfida, del confronto o della sana competizione coi colleghi, del raggiungimento di un obiettivo e della ricompensa finale. Tutti aspetti che caratterizzano il divertimento prodotto da un gioco.

Non stiamo parlando del divertimento che si può provare ad una festa tra amici o ad uno spettacolo comico, bensì di una sorta di divertimento stimolante che è frutto di concentrazione, partecipazione e complessità.

Hard fun e Teoria del Flusso

Il pedagogista e informatico americano Seymour Papert, proprio per sottolineare la differenza tra i due tipi di divertimento descritti sopra, ha coniato il termine hard fun.

Hard fun, letteralmente “divertimento arduo”, indica uno stato di piacere generato dal cimentarsi e superare le difficoltà durante una prova complessa.

Prendiamo ad esempio un giocatore di scacchi: raramente ne vedrete uno sorridere e trotterellare durante un partita, ciò non toglie che il gioco gli provochi un’intensa soddisfazione, una trance agonistica che cancella per un breve periodo i segni della stanchezza, della fame e del sonno.

Il concetto di trance è ripreso dallo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi nella sua famosa teoria del flusso: una condizione durante la quale un’attività riesce a “monopolizzare” tutte le nostre attenzioni ed energie, facendoci perdere la cognizione del tempo e la percezione degli stimoli interni o esterni.

Così, allo stesso modo, il bambino che gioca ai videogiochi e l’artigiano che porta avanti con passione il suo lavoro, non si accorgono delle ore che passano leggere e piacevoli.

player chess and wine

Le regole del gioco

Per questo motivo, è importante operare una sorta di lucidicizzazione del lavoro, sottometterlo alle regole che sono proprie del “gioco impegnato” e che lo rendono tanto interessante e accattivante.

Seguendo le indicazioni di Csíkszentmihályi, possiamo elencare i fattori necessari affinché un lavoro sia stimolante e gratificante:

  • Avere chiari gli obiettivi: sapere cosa vogliamo raggiungere tramite il lavoro e in che modo

  • Feedback continui: il consiglio o la critica costruttiva di colleghi e superiori

 

  • Sfide alla portata: intraprendere lavori che siano effettivamente al nostro livello

 

  • Avere il controllo: essere attivi nei confronti del lavoro, e non subirlo passivamente

 

  • Imparare dagli errori: la possibilità di sapere dove abbiamo sbagliato e come evitare di ripetere l’errore in futuro

 

  • Ricompensa: il meritato premio e la gratifica personale

 

pic of rubic cube

Il lavoro, nel bene o nel male, impegna circa un terzo della nostra vita, ed è uno dei più importanti strumenti di autorealizzazione, sia dal punto di vista della crescita personale che del rapporto interpersonale.

Dovremmo tener ben presente che, così come per la crescita e lo sviluppo dei bambini, le regole del gioco ricoprono un ruolo di primo piano anche nella vita degli adulti, e magari tatuarci sulla pelle la saggia citazione che dice:

L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare.
George Bernard Shaw

 

 

 

picasso guernica daniele signoriello copywriter
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Di cosa parliamo quando parliamo di creatività

picasso guernica daniele signoriello copywriter

Quando sento definire una persona o un’idea creativa, mi viene la pelle d’oca.

Ciò che mi fa rabbrividire è la leggerezza con la quale troppo spesso si dà a questo concetto una parvenza di esclusività: la creatività vista come un lusso per pochi eletti, fortunati e senz’altro invidiabili.

Decantata, amata, invidiata e sottovalutata. La creatività è un dono del destino oppure una competenza che si apprende?

Ma davvero la capacità di creare o pensare nuove cose e nuove idee è facoltà esclusiva di artisti, intellettuali e grandi pensatori?

La creatività quotidiana

Personalmente, ho sempre visto la creatività non come un talento ricevuto in dono alla nascita, né tanto meno una competenza che si acquisisce con lo studio o tramite un preciso corso universitario. Certo, la si può affinare e soprattutto allenare, ma non imparare sui banchi di scuola come con la geografia o la storia.

Più plausibilmente, la creatività è un’ attitudine, una modalità di pensiero, un tipo di approccio alla vita in tutti i suoi aspetti.

Non è forse creativo il giovane innamorato che si ingegna, pur non essendo scrittore di professione, per creare una lettera d’amore alla sua bella?

Non è forse creativo l’imprenditore che, pur non facendo della creatività il suo pane quotidiano, se ne serve per dare vita e sussistenza alla sua impresa?

Vecchi ingredienti, nuove ricette

Cos’è, dunque, questa chimera che tanti professano, ostentano e inseguono?

Sintetizzando il pensiero del matematico, fisico e filosofo naturale francese Henri Poincaré, potremmo dire che la creatività è il processo con il quale si uniscono elementi già esistenti attraverso collegamenti del tutto nuovi.

La creatività, quindi, non ha a che fare tanto con la creazione di qualcosa (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, no?), ma piuttosto con la capacità di trovare inediti punti di vista su qualcosa che è già stato inventato, nuove ricette per impastare vecchi ingredienti.

La creatività è la capacità di trovare inediti punti di vista su qualcosa che è già stato inventato, nuove ricette per impastare vecchi ingredienti.

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Le condizioni per la creatività si devono intrecciare: bisogna concentrarsi. Accettare conflitti e tensioni. Rinascere ogni giorno. Provare un senso di sé – Eric Fromm

Respira e lasciati ispirare

Mi è capitato più volte di sentire o leggere, all’interno di un contesto informatico, la frase “reinventare la ruota”. Ciò ha a che fare con l’inutilità, per i progettisti, di scervellarsi per creare qualcosa daccapo, quando qualcun altro l’ha precedentemente fatto.

Cosa c’entra questo con la creatività? I Rolling Stones, idoli di più generazioni che hanno rivoluzionato il rock, non hanno preso in prestito (o tratto ispirazione) dal blues di Muddy Waters e Robert Johnson?

Quentin Tarantino, tra i registi più apprezzati del nostro tempo, non ha forse attinto a piene mani nel repertorio cinematografico di grandi maestri come Sergio Leone o Jean-Pierre Melville?

In realtà, le potenzialità creative di un individuo sono strettamente legate alla sua capacità di lasciarsi influenzare dagli stimoli che lo circondano. Se prendessimo una persona e la lasciassimo vivere in una stanza vuota, senza libri, film o musica, sarebbe in grado di produrre qualcosa di bello?

“I buoni artisti copiano, i grandi rubano”
Pablo Picasso

Copia consapevolmente

D’accordo, questo non vuol dire che per essere creativi basti farsi bombardare passivamente dai prodotti della creatività altrui. Tanto meno la copia selvaggia (o meglio il plagio) del lavoro di qualcun altro può portare ad un risultato, se non ad una brutta figura o ad una denuncia di furto di proprietà intellettuale.

La creatività non è un processo meccanico, non la si impara a tavolino, come già detto.

Vedo la creatività come un grande frullatore: si prendono delle informazioni e degli stimoli, si aggiungono delle influenze e delle ispirazioni, un pizzico (si fa per dire) di concentrazione e tanta perseveranza.

Vi si aggiunge la competenza tecnica di un determinato campo: puoi essere creativo quanto vuoi, ma se non hai studiato architettura non sarai mai un Renzo Piano!

L’ingrediente segreto? L’insight, l’intuizione, la visione. La polvere magica che amalgama tutti gli ingredienti e crea il nuovo collegamento.

Si lascia sedimentare il tutto per un po’, magari lontano da ulteriori sovraccarichi di informazioni o stimoli. Questo è il motivo per il quale tanti artisti vivono dei periodi di isolamento. Alcuni altri, sono capaci di isolarsi, o meglio alienarsi, per cullare una propria idea anche in mezzo al caos.

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Clickbait: Yellow journalism 2.0

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Clickbait: yellow journalism 2.0

Il click facile che insozza il web

Il termine “clickbait” (letteralmente “click-esca”) indica una tecnica utilizzata da un numero sempre maggiore di pagine web e, specialmente, pagine e profili Facebook o Twitter, per spingere i lettori a cliccare su un determinato link e accedere al rispettivo contenuto.

Per catturare l’attenzione e instillare curiosità nel lettore, vengono proposti titoli sensazionali ed esagerati, a volte addirittura frasi lasciate a metà che promettono, una volta cliccato il link, di svelare i più intricati misteri e le più clamorose notizie.

Una sorta di cosìddetto “yellow journalism”, contraddistinto da notizie leggere, di attualità, scandalistiche, che catturano facilmente l’occhio di chi scorre la propria bacheca Social.

Ecco perchè, sempre più spesso, queste sono intrise di titoli eclatanti come “Guardate cosa stanno facendo a nostra insaputa!oppure “Il Governo nasconde quest’atroce verità!“.

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Un esempio di clickbait estremo da parte di Libero

Ma chi e quanto ci guadagna con il clickbait?

Il protagonisti di questo sistema pay-per-click sono tre:

  • Il lettore che, come abbiamo visto, si fa incuriosire dal titolo accattivante o dalla notizia lasciata a metà nell’intestazione
  • La pagina che genera o semplicemente condivide quel tipo di contenuto e in cui sono presenti gli annunci pubblicitari
  • L’investitore che inserisce il proprio annuncio pubblicitario nella pagina, e che paga in base ai click ricevuti da questa (e quindi in base alle persone che potenzialmente hanno visto il loro annuncio)

Un utilizzo “soft” e moderato del clickbait, è utilizzato ad esempio da testate giornalistiche e di informazione online come Wired o Huffington Post, che trovano in questa pratica un modo per produrre contenuti web in grado di auto-finanziarsi ed essere economicamente sostenibili .

Contenuti che, in linea di massima, presentano informazioni utili ed interessanti, scritti in maniera professionale e corredati da fonti attendibili.

Inutile dire che non sempre si fa del clickbait un utilizzo equilibrato e in barba anche alle più comuni regole del buon senso e del buon gusto, se ne estremizzano i termini, in cerca del massimo guadagno.

Un esempio significativo è rappresentato da Buzzfeed che, con più di 7 milioni di fans solo sulla pagina principale di Facebook (senza contare le varie digressioni, come Buzzfeed Food o Buzzfeed Video), conquista internet (e i suoi click) a suon di contenuti assurdi e di dubbia provenienza, catturando visibilità e popolarità per i propri investitori.

click bait fishing

Lo scenario più preoccupante è rappresentato da una sezione News delle nostre bacheche social piena di post, immagini e materiale in genere dalla scarsa qualità. Un’informazione sempre più superficiale e meno attendibile, che punta sempre più a catturare il click del lettore invece di proporre contenuti validi ed approfonditi.

Ovviamente c’è una grande responsabilità etica, e questa grava sia su chi i contenuti li crea o condivide, sia su chi decide di farsi allettare da un titolo scandalistico, regalando un click alla ricerca della soddisfazione al proprio curiosity gap.

Un’ancora di salvataggio alla qualità delle notizie la stanno lanciando colossi come Facebook e Google.

Sia il colosso di Palo Alto che quello di Cupertino modificano costantemente gli algoritmi che sono responsabili del come e quando un contenuto viene mostrato nella newsfeed (flusso di notizie) o nelle SERP (pagine dei risultati di ricerca) .

L’obiettivo è quello di favorire i contenuti che sono più utili agli utenti e che forniscono fonti diverse ed attendibili, tenendo conto infine anche del tempo che gli viene dedicato, penalizzando così i contenuti “usa e getta”.

Una buona notizia per l’informazione di qualità insomma, e una decisione che si spera possa essere condivisa al più presto dai Social Network più diffusi.

In attesa di ciò, possiamo fare affidamento su simpatiche ed encomiabili iniziative di alcuni utenti di Facebook, come quelli che hanno fondato la pagina “Spoilerare post che lasciano informazioni a metà“, dalla mission evidente e più che apprezzabile.

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Un esempio dell’utile lavoro della pagina Facebook

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