Il mio blog

Blog, Evidenza, Uncategorized

Google Project Management Professional Certificate: cos’è e come funziona

La certificazione professionale in Project Management di Google e gli altri percorsi di “Google Career Certificates” sono visti con grande diffidenza da professionisti, docenti e addetti ai lavori. Cercando informazioni sul web, ho notato che la maggior parte degli opinionisti ha dato una sua versione dei fatti, senza neanche prendersi il disturbo di partecipare al corso professionalizzante di Google. Ho deciso quindi di approfittare dell’occasione, frequentare il corso e fornire un’opinione informata di questa offerta didattica di Big G. Ecco tutto quello che c’è sapere sulla certificazione professionale in Project Management di Google, più le mie considerazioni personali.

Google Project Management Professional Certificate: Cos’è

La certificazione professionale in Project Management di Google fa parte della proposta formativa del colosso americano, ed è pensata per fornire ai suoi studenti conoscenze per essere competitivi sul mercato del lavoro, in ambito principalmente digitale.

Questo percorso formativo, parte del progetto “Google Career Certificates”, si presenta come un’alternativa più leggera, fruibile e pratica ad un tradizionale corso accademico. Si tratta ovviamente di un’offerta didattica interamente online e on-demand, al momento disponibile sono in inglese e in spagnolo.

Qualcuno ne ha parlato come di una “laurea di serie b”, alcuni hanno drammatizzato temendo una svalutazione dei titoli universitari classici, molto più realmente la big tech americana ha semplicemente proposto una strada privilegiata a quei professionisti (o aspiranti tali) che vogliono conoscere o approfondire un argomento, ma non posso permettersi i tempi e/o i costi di un’università.

Lo stesso Kent Walker, vicepresidente senior per gli affari globali di Google, ha specificato che si tratta di corsi che normalmente la sua azienda riserva alla specializzazione dei propri dipendenti in ambito IT. Quindi, nessuna laurea fasulla o attentato all’istruzione tradizionale, ma piuttosto una soluzione più accessibile e rapida per acquisire competenze immediatamente spendibili sul mercato.

Google Project Management Professional Certificate: quanto costa e quanto dura

Il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è disponibile esclusivamente su Coursera, nota piattaforma di e-learning che ospita anche corsi della Yale University, di Meta (Facebook) e IBM. Per accedere al corso, è sufficiente sottoscrivere un abbonamento mensile, attualmente al costo di 32€. La sottoscrizione a Coursera non è legata a Google, questo rende possibile frequentare più corsi contemporaneamente pagando una singola retta.

Non esistono altri costi per la certificazione Google, nessuna tassa di iscrizione e nessun contributo per sostenere l’esame finale e quindi ottenere l’attestazione. Ne consegue che il costo della certificazione è strettamente legato al tempo impiegato per portarla a termine. Con circa 10 ore di impegno a settimana, è possibile arrivare alla fine del percorso formativo in circa 6 mesi. Moltiplicando 32€ per 6 mesi, potremmo dire che la certificazione professionale di Google costa meno di 300€ in tutto.

Google Project Management Professional Certificate: argomenti e moduli

Il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è diviso in 6 moduli:

  1. Foundations of Project Management
  2. Project Initiation: Starting a Successful Project
  3. Project Planning: Putting it all Together
  4. Project Execution: Running the Project
  5. Agile Project Management
  6. Capstone: Applying Project Management in the Real World

Ogni modulo è presentato da uno specialista dell’azienda di Menlo Park, tra project manager, product manager ed esperti di sviluppo informatico. I moduli sono a loro volta suddivisi in “week”, che raccolgono in macro-categorie le singole videolezioni, gli esercizi e i quiz. Per poter progredire e passare da una week all’altra (e quindi da un modulo all’altro) è necessario seguire tutti i video, portare a termine tutti gli esercizi e superare i quiz con una percentuale minima di successo. Alla fine di ogni week, c’è il “weekly challenge”, un test più complesso da svolgere in 50 minuti, composto da risposte multiple, risposte aperte e risposte a scelta singola.

Durante lo svolgimento del corso, è necessario superare alcuni test “peer-graded assignment”: degli esercizi che dovranno essere valutati da altri partecipanti del corso. Per andare avanti, ogni partecipante è obbligato a valutare almeno due studenti, e a sua volta dev’essere valutato positivamente da almeno due studenti. Esiste un forum, suddiviso per moduli e week, che a tratti assume le forme di un mercato rionale, all’interno del quale ogni studente “prega” i suoi colleghi per ricevere una valutazione, pena il restare bloccato in un determinato punto del percorso.

Questo è un aspetto che ho trovato piuttosto macchinoso e malfunzionante: la maggior parte degli studenti guarda a malapena i compiti degli altri, fornendo una valutazione superficiale solo per poter proseguire con i moduli. Coursera ha cercato di sensibilizzare i partecipanti, facendo sottoscrivere un codice d’onore, attraverso il quale ogni studente si impegna a frequentare il corso e valutare i propri colleghi in maniera etica e responsabile. Come per la più tradizionale formazione, anche in questo caso gran parte della responsabilità è affidata alla scelta e alla volontà del singolo studente, che può scegliere arbitrariamente quanto tempo e quante energie dedicare al corso e alla partecipazione attiva alla community.

Google Project Management Professional Certificate: pro e contro

I vantaggi del corso per la certificazione professionale in Project Management di Google sono sicuramente l’economicità, la fruibilità e rapidità di apprendimento che questo tipo di formazione offre. Vale la pena spendere circa 300€ per un corso così strutturato che – seppur non fornendo ovviamente un’istruzione completa – propone un insieme di concetti e contenuti immediatamente spendibili da ogni professionista e in ogni settore. La piattaforma di e-learning è facilmente accessibile da ogni device, quindi è possibile studiare da casa, in viaggio e anche nei ritagli di tempo.

Il fatto che il corso sia 100% online, con lezioni on-demand e con una community internazionale, rappresenta allo stesso tempo un pro e un contro. Il contatto – e quindi lo scambio di idee e conoscenze – con insegnanti e gli altri studenti è praticamente nullo. Il forum assomiglia più ad un anarchico feed social, dove si possono trovare opinioni, messaggi senza senso e caratteri messi lì solo per ottenere la spunta verde su quel determinato passaggio.

 

Google Project Management Professional Certificate: conclusioni e opinioni

Se sei un aspirante project manager, o già ricopri questo ruolo ma senti di avere alcune lacune sui concetti fondamentali, il corso di Project Management di Google fa al caso tuo. Se vuoi capire come perfezionare la gestione dei progetti, ottimizzare tempi e risorse, sia a lavoro che nel tempo libero, allora il corso fa al caso tuo. Se desideri migliorare la tua posizione lavorativa, puntando a ruoli di coordinamento o management, questo corso potrà aiutarti a padroneggiare meglio le dinamiche dei gruppi di lavoro e dei progetti più complessi.

Allo stesso tempo, se pensi che questa certificazione possa spalancare le porte ad ogni colloquio come Project Manager o affini, forse questa non è la strada più giusta. Ad oggi, in Italia, questo tipo di certificazione non ha un peso riconosciuto e un’autorevolezza tale da fare la differenza durante una selezione lavorativa. Il rapporto qualità-prezzo di questa certificazione è senz’altro vantaggioso, considerati i migliaia di corsi che potresti trovare online, ad un prezzo di gran lunga maggiore e con modalità di accesso più complesse.

In conclusione, il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è un’ottima porta d’ingresso allo sconfinato mondo del project management, della metodologia Agile e ad alcuni importanti fondamenti di leadership e team working. Le nozioni che imparerai, seppur molto teoriche, ti aiuteranno a migliorare le tue capacità di gestione dei progetti, soprattutto quelli digitali.

Quattro Libri per Aspiranti Copywriter
Blog, Comunicazione & Marketing

Quattro Libri per Aspiranti Copywriter

Quattro Libri per Aspiranti Copywriter

Attenzione, questa non è la solita lista di libri per aspiranti copywriter: non ci sono manuali pratici né grandi nomi della pubblicità italiana o internazionale. All’interno di questa lista non trovano spazio tutte quelle guide – nate come funghi negli ultimi anni – che pretendono di spiegare in un centinaio di pagine come si diventa scrittori, narratori e copywriter.

Quindi, se è un manuale pronto all’uso ciò che stai cercando, mi spiace ma questo non è il posto giusto. Nei volumi che seguono, non troverai nessuna verità oggettiva, nessun prontuario da seguire alla lettera né tanto meno la formula definitiva per scrivere testi che tengono il lettore incollato alle tue parole.

Più onestamente, gli scrittori di questa lista hanno tracciato una linea, un percorso ideale che ci permette di comprendere – che è il primo passo per padroneggiare – la complessa arte di scrivere brani che catturino, coinvolgano e magari convincano i nostri lettori.

Rompiamo gli indugi e andiamo dritti al cuore del nostro argomento, scopriamo i consigli di autori che, più o meno consapevolmente, hanno condiviso con noi la loro visione della narrativa e quindi, in maniera indiretta, del copywriting.

Perché che cos’è il copywriting, se non una forma pubblicitaria di narrazione?

1 – “Lezioni americane” di Italo Calvino

Le Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millenniorappresentano l’ultimo lavoro di Italo Calvino, che le realizzò in vista di una conferenza che avrebbe dovuto tenere presso la famosa università di Harvard. Purtroppo Calvino si spense prima, la conferenza non ebbe mai luogo e l’opera venne pubblicata postuma.

Le sei lezioni (leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza) rappresentano un testamento involontario, attraverso il quale l’autore italiano lascia ai posteri la sua visione della narrativa e della poetica.

Un testo ricco di citazioni, riferimenti e spunti in cui Calvino tenta la coraggiosa impresa di individuare i valori della letteratura di qualità, quelli da tenere al riparo e preservare dall’incontrollabile metamorfosi sociologica e tecnologica che rischiava (parliamo dei anni ‘80) di snaturare il modo di concepire la comunicazione e la letteratura.

Un libro attuale e utile più che mai, sia per chi voglia cimentarsi nell’avventurosa attività della scrittura, sia per chi voglia semplicemente avere una panoramica sulle virtù indispensabili alla narrativa di qualità.

2 – “Grammatica della Fantasia” di Gianni Rodari

Saltiamo da un caposaldo della letteratura italiana all’altro e ci concentriamo su uno dei testi “must read” per amanti e professionisti della creatività e dell’insegnamento: la “Grammatica della Fantasia” di Gianni Rodari.

Il libro, pubblicato nel 1973 col sottotitolo “Introduzione all’arte di inventare storie”, è un piccolo compendio nato con l’obiettivo di “parlare dei processi della fantasia e delle regole della creazione per renderne l’uso accessibile a tutti.”

Lo scrittore di Omegna, autore di centinaia di racconti e favole, rivolge questo il suo saggio a chi, per motivi personali o lavorativi, si trovi ad avere a che fare con i bambini e le loro attività creative.

Si tratta di un libro per bambini allora? No, e lo chiarisce proprio Rodari: “il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti.”

La “Grammatica della Fantasia” è una lettura estremamente fruttuosa, che tu voglia incoraggiare lo spirito creativo di un bambino o riscoprire la capacità – a volte intorpidita nell’adulto – di creare e scrivere storie fantastiche.

3 – “Come si scrive un racconto” di Gabriel García Márquez

Prima che la formula “how to” invadesse librerie e bacheche social, Gabriel García Márquez ci fede dono del suo “Come si scrive un racconto”, una raccolta di consigli per aspiranti scrittori e narratori.

Erano gli anni ‘90, il premio Nobel colombiano-messicano stava tenendo un laboratorio di sceneggiatura in Messico, quando l’emittente televisiva gli chiese 13 storie d’amore ambientate in America Latina. Márquez raccoglie i suoi “discepoli” e chiede loro di realizzare le 13 storie: il libro è un’analisi precisa del processo creativo di un racconto, durante la quale il Maestro e i suoi allievi si confrontano su forma, contenuti e struttura di una trama narrativa.

Il risultato è un testo che ci porta a spiare dal buco della serratura l’anatomia del racconto, come se fossimo stati anche noi in quell’aula, come se avessimo avuto anche noi per docente il grande scrittore latinoamericano.

4 – “The Sense of Style” di Steven Pinker

Arriviamo all’elemento della lista con una struttura più manualistica, scritto dallo scienziato cognitivo e professione di psicologia all’Università di Harvard Steven Pinker: The Sens of Style.

Il sottotitolo di questo testo del 2014 la dice lunga sulle intenzioni di Pinker: the thinking person’s guide to writing in the 21th century”. Non si tratta di un manuale di narrativa, né tanto meno di un trattato sulla scrittura creativa. Pinker ci presenta invece un’opera più complessa, un saggio di linguistica pensato per autori di testi scientifici, tesi e relazioni, che però torna senz’altro utile anche a scrittori creativi e narratori in cerca di dare un movente razionale alla scelta delle proprie parole.

Il libro è reperibile solo in lingua inglese e riserva l’ultimo capitolo proprio alla scrittura anglosassone, è quindi molto utile se devi scrivere testi in inglese.

Come promesso, nella lista non hanno trovato spazio libri specialistici del copywriting e dello storytelling, che comunque posseggono una grande valore intrinseco e rappresentano letture più che benefiche per aspiranti scrittori. Penso ad esempio a “La parola immaginata” di Annamaria Testa, a “Scripta Volant” di Paolo Iabichino e “Il mestiere di scrivere” di Luisa Carrada.

Ma se vuoi fare della scrittura creativa il tuo mestiere, sei “costretto” ad andare oltre, uscire dalla chimera del manualistica onnisciente e imparare a rubare dai migliori.

Ecco perché un buon scrittore dovrebbe essere prima di tutto un ottimo lettore. Allora potresti cominciare a rubare lo stile e l’eleganza di F.S. Fitzgerald, la verve tagliente di Ernest Hemingway, l’immaginazione fantastica di Philip K. Dick, la raffinata suspense di E.A. Poe, il ritmo frenetico di Jack Kerouac e avanti fino all’infinito…

le leggi della simplicità
Blog, Evidenza, Idee e creatività

Piccola Guida alla Semplicità

Piccola Guida alla Semplicità 

Cominciare a scrivere riguardo alla semplicità può essere un lavoro davvero complesso. Catturare il senso di un argomento così sfaccettato è un’impresa che può farti cadere nell’estrema esemplificazione, oppure sprofondare in un inutile groviglio di concetti (sarebbe il colmo, no?).

Allora comincerei col mettere le cose in fila, come a scuola si affronta un argomento del tutto inedito. Ci si avvicina attraverso una definizione, lo si aggira esaminandolo da diverse angolature e lo si imprime con una citazione colta e lapidaria.

Procediamo con la “santa trinità” dell’apprendimento quindi: definizione, descrizione e citazione.

Una definizione di Semplicità

La Semplicità (d’ora in avanti con la S maiuscola, come si addice ai nobili argomenti), è definita così dai grandi prontuari italiani:

  • il Corriere della Sera definisce la Semplicità come “naturalezza, spontaneità, sobrietà” e poi come “chiarezza, concisione nell’espressione scritta e orale”
  • La Repubblica parla della Semplicità come della “mancanza di complessità, di difficoltà” e anche qui si torna sulla “schiettezza, naturalezza, sincerità”
  • Wikipedia osa e azzarda una definizione più precisa, per la quale il termine Semplicità “è riferibile a qualcosa che è fisicamente costituita da uno o da un numero minimo di elementi essenziali tali da renderla facilmente comprensibile nella sua struttura e agevolmente riproducibile.”

Insomma la Semplicità sarebbe qualcosa che ha a che fare col naturale e lo spontaneo, un ‘entità onesta ed essenziale, facile da digerire e alla portata di tutti. A parlarne così, sembra quasi che la Semplicità sia la cosa più democratica del mondo. E forse lo è.

C’è chi è addirittura arrivato ad innalzare la Semplicità a sinonimo di verità, o quantomeno a proporre la prima come mezzo infallibile per arrivare alla seconda. Il filosofo francescano Guglielmo di Ockham nel XIV secolo postulò: “a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”.

Citazioni sulla Semplicità

Il riferimento alla democrazia della Semplicità deriva dalla sua trasversalità: ogni aspetto della nostra vita può essere (o non essere) semplice, ogni gesto e ogni atto creativo ha l’opportunità – se non il potere – di rispettare le regole della semplificazione.

Ecco perché ho scelto una manciata di citazioni, ciascuna pensata come ispirazione e invito a migliorare le capacità semplificative, a prescindere dall’ambito d’azione, status o ruolo.

La Semplicità per chi si perde nei dettagli:
La nostra vita è trascinata via dai dettagli… Semplificare, semplificare.”  (Henry David Thoreau)

La Semplicità per gli innovatori:
Questo è uno dei miei mantra: concentrazione e semplicità. Il semplice può essere più forte del complesso. Devi lavorare duro per pulire il tuo pensiero e renderlo semplice. Ma alla fine ne vale la pena perché una volta ottenuto ciò, puoi spostare le montagne.” (Steve Jobs)

La Semplicità per gli scrittori:
Un giorno troverò le parole giuste, e saranno semplici.” (Jack Kerouac)

La Semplicità per gli insegnanti:
Se non riesci a spiegarlo a un bambino di 6 anni, non l’hai capito nemmeno tu.” (Albert Einstein)

La Semplicità per chi cerca la verità:
Niente è vero, tranne ciò che è semplice.” (Johann Wolfgang von Goethe)

La Semplicità per gli istrionici:
Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico, e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo.” (Charles Bukowski)

La Semplicità per i creativi:
La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere.” (Antoine de Saint-Exupéry)

La Semplicità per gli amanti del paradosso, con un pizzico di ironia:
La semplicità non è una cosa semplice.” (Charlie Chaplin)

La Semplicità per i designer:
La semplicità è sottrarre ciò che è ovvio ed aggiungere ciò che è significativo.” (John Maeda)

Maeda e “Le leggi della Semplicità”

L’ultima citazione, di John Maeda, è un pretesto per parlare de “Le Leggi della semplicità”, libro pubblicato proprio dall’autore statunitense nel 2006. Un piccolo manuale teorico/pratico sull’importanza di semplificare i processi del design e su come riuscirci.

John Maeda è laureato presso l’illustre Massachusetts Institute of Technology, è riconosciuto come uno dei creativi più influenti degli ultimi decenni e fa parte – tra le altre cose – di Automattic, l’azienda che ha realizzato WordPress.

Le leggi della Semplicità è un trattato di circa 100 pagine, frutto di anni di ricerche ed esperienza nel campo del design, in cui Maeda colpisce dritto al cuore della complessità digitale e tecnologica del nostro secolo, invitandoci ad abbracciare una concezione “più significativa” della nostra vita creativa.

Ecco, in breve, le dieci leggi:

  1. Riduci. Il modo più semplice per conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata.
  2. Organizza. L’organizzazione fa sì che un sistema composto da molti elementi appaia costituito da pochi.
  3. Tempo. I risparmi di tempo somigliano alla semplicità.
  4. Impara. La conoscenza rende tutto più semplice.
  5. Differenze. La semplicità e la complessità sono necessarie l’una all’altra.
  6. Contesto. Ciò che sta alla periferia della semplicità non è assolutamente periferico.
  7. Emozione. Meglio emozioni in più, piuttosto che in meno.
  8. Fiducia. Noi crediamo nella semplicità.
  9. Fallimento. Ci sono cose che non è possibile semplificare.
  10. L’unica. Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo.

John Maeda continua ancora oggi a farsi promotore di un design più semplice ed etico, attraverso il suo sito e una serie di illuminanti discorsi al pubblico.

Kunal Krishna illustration brand storytelling
Blog, Evidenza, Idee e creatività

Brand Storytelling e le Carte di Propp

Brand Storytelling e le Carte di Propp

Un’azienda è come una persona, ha i suoi pregi e i suoi difetti, i punti forti e i punti deboli, le difficoltà e le potenzialità. E proprio come per le persone, ogni azienda ha una storia, che la rende unica al mondo.

Una storia spesso fatta di successi e insuccessi, difficoltà ed opportunità, sfide complesse e rocambolesche avventure. Ecco perché la narrazione d’azienda (brand storytelling) è da sempre uno strumento potentissimo per i brand che vogliono arrivare al cuore del proprio pubblico.

Raccontare una storia in cui le persone possano rivedere la propria, per un’azienda significa stimolare i più importanti meccanismi che ci spingono a preferire un prodotto rispetto ad un altro: l’empatia e l’identificazione.

Quando una persona rivede le sue paure, le sue speranze e le sue difficoltà all’interno di una narrazione d’azienda, probabilmente sarà più sensibile alla comunicazione del brand, perché in essa riconosce dei valori comuni. Gli individui possono identificarsi con gli eroi dello storytelling aziendale, oppure guardare a loro come a delle figure di ispirazione, da cui trarre lo stimolo e la forza per affrontare il proprio viaggio dell’eroe.

Il viaggio dell’eroe

Il cosiddetto “viaggio dell’eroe” è uno schema classico, proposto nell’omonimo libro dallo sceneggiatore della Disney Christopher Vogler, che individua alcuni elementi ricorrenti all’interno di una narrazione.

In ogni avventura che si rispetti, c’è sempre un “mondo ordinario” che viene in qualche modo scombussolato da una “forza malefica”, per questo motivo il nostro “eroe” è costretto ad intraprendere “un viaggio” che lo porterà ad affrontare delle “prove di coraggio”. Attraverso i suoi poteri e i suoi valori, con l’aiuto di alleati e mentori, l’eroe sconfiggerà la forza malefica e ci permetterà di concludere con un “lieto fine” la narrazione.

Pensando ai successi della Disney, ai libri classici e anche alle più moderne serie tv, quante di queste storie hanno uno schema che riprende “il viaggio dell’eroe” proposto da Vogler? Più o meno evidentemente, tutte queste storie si fondano su questo schema primordiale. Ovviamente, nel corso dei secoli, autori e sceneggiatori hanno cercato di mescolare le carte e proporre delle narrazioni che apparissero sempre nuove. Più o meno come quando si dice che le note musicali sono 7, e i musicisti devono partire da quella base comune per poter creare qualcosa di nuovo.

beauty-beat-kaaillustration

Illustrazione de “La bella e la bestia” di KKA Illustration

Schema di Propp

Partendo da questi presupposti, il linguista e antropologo russo Vladimir Propp, ha sviluppato uno studio approfondito delle origine storiche delle fiabe e dei racconti del folklore. Attraverso questo studio, Propp individuò un modello comune a tutte queste narrazioni e costituito da 31 funzioni (Morfologia della Fiaba, Vladimir Propp, 1928).

Tra queste 31 funzioni, troviamo elementi che sono alla base di tutte le vicende che incontriamo sul grande schermo o sui libri di narrativa: c’è l’allontanamento del protagonista da casa, il danneggiamento dell’antagonista nei confronti di un parente/amico/amante dell’eroe, ci sono le prove,le battaglie e la conclusione con la ricompensa finale.

Le 31 funzioni rientrano all’interno di uno schema generale, detto appunto Schema di Propp, costituito da 4 punti essenziali:

  • Equilibrio iniziale (inizio della storia)
  • Rottura dell’equilibrio iniziale (il motivo per cui l’eroe comincia il viaggio)
  • Peripezie dell’eroe (le sfide e le avventure dell’eroe)
  • Ristabilimento dell’equilibrio (lieto fine e ricompensa)

Lo studio dell’antropologo russo, oltre ad individuare gli elementi tipici di una narrazione, determina anche i personaggi archetipi presenti all’interno di ogni storia:

  • l’eroe, ovvero il protagonista della storia
  • l’antagonista, ossia il nemico che si oppone all’eroe
  • il mandante, cioè il personaggio che chiama all’azione l’eroe
  • l’aiutante, il personaggio che spalleggia l’eroe nella sua avventura
  • la principessa o il premio, che è la ricompensa che motiva la partenza dell’eroe per il suo viaggio
  • il donatore, spesso è anche un mentore che addestra l’eroe e gli fornisce i mezzi per sconfiggere il suo nemico

Per capire meglio i personaggi archetipi di Propp, possiamo confrontare questa lista con uno dei più grandi capolavori narrativi degli ultimi secoli: Il Signore degli Anelli.

Leggendo o guardando con attenzione la storia inventata da Tolkien, scopriamo che:

  • l’eroe è Frodo Baggins, il coraggioso hobbit che parte per il viaggio
  • l’antagonista è Sauron, l’entità malefica che mette a rischio il mondo
  • il mandante è il Gran Consiglio di Elrond, che comprende Nani, Elfi e Uomini e che incarica la Compagnia dell’Anello della missione
  • l’aiutante è l’intera Compagnia dell’Anello – in special modo Samvise Gamgee – che accompagna Frodo attraverso le sue avventure
  • la principessa o il premio in questo caso è la salvezza dell’universo
  • il donatore è Gandalf, il mago che sprona Frodo e gli dà i mezzi per portare a termine la sua missione
Illustrazione de "Il Signore degli Anelli" di Kunal Krishna

Illustrazione de “Il Signore degli Anelli” di Kunal Krishna

Le Carte di Propp

Le Carte di Propp sono delle carte che possono aiutarci nella costruzione di una fiaba o di un racconto, attraverso un semplice gioco di società. Le carte sono spesso utilizzate dai maestri per stimolare la creatività e l’immaginazione dei loro piccoli allievi, ma sono adatte anche a chi voglia passare una serata in compagnia o cimentarsi nella creazione di una narrazione.

Le carte sono 21, presentano un disegno e una piccola didascalia che fornisce qualche indizio sul personaggio e la funzione. Una volta distribuite ai partecipanti del “gioco”, ognuno gira le carte durante il proprio turno e aggiunge un tassello alla storia in costruzione.

In questo modo si può realizzare un racconto appoggiandosi ad uno scheletro predeterminato, ma facendo viaggiare la fantasia giocando con i personaggi e le funzioni individuate da Propp.

Certo, per implementare una narrazione di marca efficace non è sufficiente fare una partita a carte. Ci vuole analisi, strategia e obiettivi ben definiti. Ma rifarsi allo schema di Propp e al Viaggio dell’Eroe – come fanno i migliori narratori e produttori cinematografici – ci assicura una linearità e una potenza narrativa estremamente valida, perché è antica ma allo stesso tempo sempre nuova.

Nella peggiore delle ipotesi, avremo impiegato qualche ora a stimolare la nostra immaginazione, che non sarà mai una cattivo affare!

 

 

Come hai potuto leggere, lo storytelling è fondamentale all’interno di un piano di marketing moderno, ma bisogna comprendere che va inserito nell’interno di una più ampia strategia di marketing digitale; qualora volessi approfondire questo argomento, potresti frequentare il corso di Digital Marketing offerto da Digital Coach.

 

Illustrazione di copertina di Sara Kipin

Illustrazione de “La bella e la bestia” di KKA Illustration

Illustrazione de “Il Signore degli Anelli” di Kunal Krishna

Blog, Comunicazione & Marketing, Evidenza, Uncategorized

Non ci resta che umanizzare

Perché un brand dovrebbe avere delle caratteristiche umane? Per capirlo, bisogna fare un piccolo passo indietro, per capire cosa ci rende umani.

Le nostre imperfezioni fisiche, prendere decisioni facendoci guidare dalle emozioni, commettere errori e saper distinguere il bene dal male, essere in grado di proiettarci nel futuro e tenere fede a promesse e progetti, godere della compagnia degli altri e impegnarci in qualcosa di utile per la nostra società.

La lista potrebbe andare avanti per ore, ma il punto è semplice e richiede molte meno parole: in quanto umani (e quindi imperfetti), sentiamo il bisogno di comunicare ed interagire con i nostri simili, con altri umani che abbiano una storia alle spalle, dei pregi e dei difetti, delle aspettative e dei sogni.

Questa ricerca di empatia è alla base dell’umanizzazione dei brand che sta trasformando i più grandi marchi del mondo in amici, vicini di casa e perfino confidenti intimi.

Leggendo “Marketing 4.0” di Philip Kotler mi sono soffermato sul capitolo dedicato a questo argomento, sottolineando e prendendo appunti a margine. Il guru del marketing identifica 6 caratteristiche che un brand deve sviluppare, per poter essere considerato un “brand umano”. Potrebbe sembrare un tema scontato o perfino retorico, ma questa umanità oggi serve a tutti, alle aziende prima ancora che ai loro clienti.

Fisicità

I brand, proprio come persone, hanno delle caratteristiche fisiche ben definite. Quello che per gli essere umani sono il colore degli occhi e dei capelli, l’altezza e il peso, nel linguaggio del marchio si traduce in visual identity.

Questa identità visiva per un brand è composta da elementi come il logo, una palette di colori, un carattere tipografico ed altri componenti di design. In sintesi, la “fisicità” di un marchio è quell’insieme di fattori che lo rendono concreto e immediatamente riconoscibile agli occhi dei consumatori.

Tutti ricordiamo il baffo della Nike, il colore verde di Spotify, il simpatico signore con i baffi della Birra Moretti o la disposizione di un negozio H&M.

Intelletto

L’intelletto è la capacità di una persona (e quindi di un brand umano) di dare alla luce delle idee innovative e funzionali, in modo da superare ostacoli e affrontare delle criticità.

Le aziende veramente innovative sono in grado di trovare nuove soluzioni a vecchi problemi, spesso ricorrendo al supporto delle moderne tecnologie. Un esempio è Amazon, che attraverso i “locker” e le consegne coi droni, sta superando il classico problema dell’irreperibilità dei destinatari.

Socialità

Se è vero che “l’uomo è un animale sociale”, anche i brand che mirano ad umanizzarsi hanno bisogno di entrare in relazione con le persone. Creare un dialogo con il proprio pubblico non significa solo scambiare qualche tweet o stimolare interazione attraverso qualche sticker di Instagram.

Un grande esempio di brand che entra in relazione col proprio pubblico è Netflix. La società statunitense è molto sensibile alle critiche e ai pareri dei propri clienti, tanto da creare Bandersnatch, un episodio di Black Mirror in cui è l’utente a decidere l’evoluzione della storia.

Emotività

Ciò che più guida le scelte di un essere umano sono le sue emozioni. Di conseguenza, ciò che distingue un brand umano da tutti gli altri è la capacità di evocare queste emozioni. La gioia, la malinconia, la paura, l’umorismo…attraverso lo storytelling un brand può affrontare le emozioni più viscerali dell’uomo per creare una connessione.

Un esempio è la recente campagna di Wind, chiamata “Più Vicini”. Attraverso i suoi spot, il gestore telefonico tocca le corde del nostro animo che hanno a che fare con amicizia, amore, rimorso e impianto.

Affabilità

Essere umani significa anche avere dei difetti, e riuscire ad ammetterlo è una gigantesca sfida sia per noi che per i brand. Ma una persona (e un brand umano) che sia capace di riconoscere le proprie imperfezioni è una persona (o brand umano) più credibile e in grado di ispirare fiducia.

Un curioso esempio è quello della casa editrice Einaudi: prima sbaglia la copertina di un libro di Fante, poi fa mea culpa, infine ci scherza su con umorismo (nel frattempo la stampa con la copertina sbagliata va a ruba, come oggetto da collezione!).

Ecco l’errore e la soluzione di Einaudi.

Moralità

Ultima, ma non meno importante, la moralità: la capacità di una persona (o un brand umano) di possedere un’etica e di impegnarsi attivamente nella salvaguardia dei propri valori.

Negli ultimi anni il “corporate activism” prende piede tra le imprese più o meno grandi, in virtù della crescente sensibilità dei consumatori nei confronti dell’impegno dei brand sull’ecosostenibilità e l’attivismo sociale.

Ikea promette di essere totalmente eco-sostenibile entro pochi anni, H&M lancia una linea di capi d’abbigliamento eco-friendly e Gilette dichiara guerra alla mascolinità sessista del passato.

In conclusione, citando Kotler:

“il processo (di umanizzazione del brand) consiste nel portare in luce le ansie e i desideri latenti dei consumatori attraverso l’ascolto sociale, la netnografia e la ricerca empatica”.

Questo processo porterà ad un risultato win-win per brand e consumatori. I brand diventeranno portatori di emozioni e valori sani, nonché attivisti sociali e promotori di politiche eco-sostenibili. I consumatori potranno abbracciare la filosofia del brand, sentirsi parte di un gruppo mosso da scopi nobili e continuare ad acquistare in maniera più consapevole.

In copertina l’artwork di Anita Molnar

Blog, Società

Mick Doohan: il Mito della Resilienza

Michael “Mick” Doohan:
il mito della resilienza

La storia, le difficoltà e i successi di uno
dei più grandi campioni delle due ruote

 

Le grandi storie non hanno mai una trama lineare, così come alla base di un mito non c’è mai qualcosa di prevedibile. Le leggende nascono dalle difficoltà, attraversano percorsi tortuosi e arrivano in vetta superando tutti gli ostacoli che incontrano per strada.

La storia del mito, Michael “Mick” Doohan, ovviamente non può fare eccezione: una storia fatta di tanti successi, ma ricca allo stesso modo di sofferenza e avversità, ostacoli che sembravano insormontabili e resilienza.

Cos’è la resilienza?

“La resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.”

Oggi Motowide vi racconta perché Mick Doohan, oltre ad essere un grande campione di motociclismo, è innanzitutto un esempio virtuoso di resilienza, coraggio e caparbietà.

Le origini e i “primi passi”

Michael Sydney Doohan nasce il 4 giugno 1965 a Brisbane, una delle città più popolose dell’Australia, situata sulla costa est conosciuta anche come Gold Coast. Mick nasce e cresce in una regione dove i passatempi principali sono fare surf, andare in moto e bere birra in spiaggia fino a tardi. Per nostra fortuna, Doohan si specializzerà solo in una di queste attività ludiche.

In realtà di ludico c’è ben poco, visto che il nostro Mick trasformerà quasi subito il motociclismo in un affare serio, entrando nel mondo professionistico gareggiando dai primi anni ‘80 nella Superbike australiana.

Le sue qualità di pilota lo fecero subito risaltare nel panorama motociclistico internazionale, così da portarlo nel giro di pochi anni (1987) al mondiale di Formula TT e al primo podio nel circuito giapponese di Sugo. È la Yamaha che riconosce il suo talento e lo schiera nel campionato australiano di Superbike, Mick ripaga la fiducia dei nipponici vincendo entrambe le tappe australiane.

È il 1989 e i tempi sono abbastanza maturi per il grande salto, il Motomondiale sta aspettando. La Yamaha prova a corteggiare il suo campione per tenerlo nella propria scuderia, ma dovrà arrendersi alla decisione di Doohan: esordire al Motomondiale con la Honda Racing Corporation.

Il debutto al Motomondiale

Ad aspettarlo in scuderia c’è un altro australiano, Wayne Gardner, già campione della 500 con la Honda nel 1987.

Le prime scorribande di Mick Doohan nella 500 verranno ricordate più per le cadute che per i successi. Il suo stile di guida è grezzo e sprezzante, il suo approccio alle gare è così brutale che in molti cominciano a dubitare del suo effettivo talento.

Ma come ogni pietra preziosa che si rispetti, c’è bisogno di tanto lavoro ed impegno perché possa brillare al meglio delle sue possibilità. È così che Mick, con la tenacia che lo ha sempre contraddistinto, si mette al lavoro per tentare di limare le imperfezioni della sua guida.

Nel campionato mondiale del ‘90 esordisce male con un ritiro alla prima gara, ma arriva anche la sua prima vittoria, alla penultima corsa in Ungheria. L’anno seguente il livello delle sue prestazioni continua a salire, con le vittorie in Spagna, Italia e Austria. Alla fine della competizione sarà secondo, dietro solo all’americano Wayne Rainey della Yamaha.

Ancora una volta i tempi sono maturi e Mick si prepara per il grande colpo, quel primo posto al Motomondiale che sembra il coronamento perfetto della sua evoluzione motociclistica. Il 1992 comincia effettivamente alla grande, con 5 vittorie nelle prime 7 gare, che gli fanno spiccare il volo nella classifica piloti.

Ma l’inaspettato era dietro l’angolo – precisamente ad Assen – ed aspettava Mick Doohan per mischiare le carte e sconvolgere tutti i suoi piani di trionfo sul Motomondiale.

L’incidente, l’operazione e il Dottor Costa

È il 27 giugno del 1992 e i piloti stanno svolgendo le prove del Gran Premio di Assen, in Olanda. Mick Doohan è vittima di una caduta, come molte altre della sua carriera, a causa della quale riporta una frattura della gamba destra. Dopodiché, l’impensabile: la Honda spinge perché rientri in gara e vinca il Motomondiale, l’australiano viene operato in fretta e furia e le conseguenze sono disastrose. Per un errore dei medici, il pilota di Brisbane rischierà di perdere la gamba per cancrena.

Per tentare di salvare la gamba (e la carriera) di Mick fu chiamato il Dottor Claudio Costa, medico italiano già noto nell’ambiente motociclistico dell’epoca. L’azione del chirurgo fu tempestiva quanto anticonvenzionale: prelevò l’australiano dall’ospedale olandese dove era ricoverato, lo portò rapidamente in Italia e intervenne con mezzi non proprio tradizionali.

L’entrata in gioco del luminare Dottor Costa fu provvidenziale per dare una chance alla gamba di Mick, il coraggio e la voglia di non arrendersi dell’australiano fecero il resto. Contro tutte le aspettative – e anche contro molti pareri discordanti – il pilota della Honda risalì in sella il 23 agosto (a meno di due mesi dal grave incidente) e gareggiò nelle ultime due sfide del mondiale.

Purtroppo la ferita era ancora troppo recente, il terrore dell’incidente ancora troppo vivo, il dodicesimo e il sesto posto non bastarono a Doohan, che dovette accontentarsi del secondo posto sul podio dietro all’americano Rainey.

La rinascita ed il successo

Questa per Mick Doohan non è assolutamente la fine, ma l’inizio di una nuova vita che sarò costellata di grandi successi e soddisfazioni. Mick continua a zoppicare e utilizzare il pedale destro per il freno posteriore è diventato impossibile. Il campione australiano deve trovare un modo per reinventarsi, per cambiare stile di guida e tornare ai livelli che gli appartengono.

La soluzione fu tanto semplice quanto geniale: la Brembo progettò un comando manuale che, posto alla sinistra del manubrio, gli permetteva di gestire il freno posteriore col pollice. Nacque così il freno posteriore a pollice, che tutt’oggi è utilizzato da professionisti di tutto il mondo, per ottenere maggiore sensibilità nella frenata e avere un controllo più preciso.

Costretto a fare “di necessità virtù”, Mick Doohan visse il Motomondiale del 1993 come un banco di prova, con gli occhi del mondo puntati addosso, cercando di dimostrare di essere davvero in grado di tornare il campione che tutti conoscevano. Il campionato non fu esaltante, una sola vittoria a San Marino e un quarto posto finale che gli stava stretto.

Ma il meglio doveva ancora venire.

Dal 1994 al 1998 Mick mette in scena uno spettacolo senza paragoni, dominando il Motomondiale e portando a casa 5 titoli consecutivi. Il campione australiano entra nella leggenda di prepotenza, scrollandosi di dosso tutte le paure e le malelingue che lo davano per spacciato dopo l’incidente di Assen.

Quel triste giorno del ‘92 non l’ha spaventato e non gli ha tolto la grinta che lo ha sempre contraddistinto, ma di sicuro lo ha profondamente cambiato, costringendolo a tirare fuori il suo meglio. Un uomo, Mick, noto per essere sicuro di sé fino ai limiti dell’arroganza. Non un “uomo da spogliatoio” e sicuramente non il più amato nel paddock.

Ma la sua scorza dura gli ha permesso di passare, nel giro di pochi anni, dal rischio di perdere una gamba alla vetta più alta del mondo motociclistico. Una storia che ha dell’incredibile, se si pensa a quante occasioni avrebbe avuto Doohan per arrendersi al destino, anche giustificatamente.

Invece no, il ragazzo della Gold Coast non si è arreso mai, neanche per un attimo. Ha preso sulle spalle tutte le incertezze e le paure che la vita gli ha presentato, affrontandole a testa alta con coraggio e caparbietà. Per questo è diventato uno di quei personaggi leggendari, che sono dei punti di riferimento per tutti colori che affrontano avversità ogni giorno.

Ecco, quando qualcuno vi chiederà “che cos’è la resilienza”, voi potrete fargli vedere senza timore una foto di Mick Doohan, il campione che ha dovuto toccare il fondo per poter prendere lo slancio e arrivare in cima al mondo!

Questo post è stato originariamente pubblicato su Motowide.com.

1 2 3 4 5
About Exponent

Exponent is a modern business theme, that lets you build stunning high performance websites using a fully visual interface. Start with any of the demos below or build one on your own.

Get Started