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Mick Doohan: il Mito della Resilienza

Michael “Mick” Doohan:
il mito della resilienza

La storia, le difficoltà e i successi di uno
dei più grandi campioni delle due ruote

 

Le grandi storie non hanno mai una trama lineare, così come alla base di un mito non c’è mai qualcosa di prevedibile. Le leggende nascono dalle difficoltà, attraversano percorsi tortuosi e arrivano in vetta superando tutti gli ostacoli che incontrano per strada.

La storia del mito, Michael “Mick” Doohan, ovviamente non può fare eccezione: una storia fatta di tanti successi, ma ricca allo stesso modo di sofferenza e avversità, ostacoli che sembravano insormontabili e resilienza.

Cos’è la resilienza?

“La resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.”

Oggi Motowide vi racconta perché Mick Doohan, oltre ad essere un grande campione di motociclismo, è innanzitutto un esempio virtuoso di resilienza, coraggio e caparbietà.

Le origini e i “primi passi”

Michael Sydney Doohan nasce il 4 giugno 1965 a Brisbane, una delle città più popolose dell’Australia, situata sulla costa est conosciuta anche come Gold Coast. Mick nasce e cresce in una regione dove i passatempi principali sono fare surf, andare in moto e bere birra in spiaggia fino a tardi. Per nostra fortuna, Doohan si specializzerà solo in una di queste attività ludiche.

In realtà di ludico c’è ben poco, visto che il nostro Mick trasformerà quasi subito il motociclismo in un affare serio, entrando nel mondo professionistico gareggiando dai primi anni ‘80 nella Superbike australiana.

Le sue qualità di pilota lo fecero subito risaltare nel panorama motociclistico internazionale, così da portarlo nel giro di pochi anni (1987) al mondiale di Formula TT e al primo podio nel circuito giapponese di Sugo. È la Yamaha che riconosce il suo talento e lo schiera nel campionato australiano di Superbike, Mick ripaga la fiducia dei nipponici vincendo entrambe le tappe australiane.

È il 1989 e i tempi sono abbastanza maturi per il grande salto, il Motomondiale sta aspettando. La Yamaha prova a corteggiare il suo campione per tenerlo nella propria scuderia, ma dovrà arrendersi alla decisione di Doohan: esordire al Motomondiale con la Honda Racing Corporation.

Il debutto al Motomondiale

Ad aspettarlo in scuderia c’è un altro australiano, Wayne Gardner, già campione della 500 con la Honda nel 1987.

Le prime scorribande di Mick Doohan nella 500 verranno ricordate più per le cadute che per i successi. Il suo stile di guida è grezzo e sprezzante, il suo approccio alle gare è così brutale che in molti cominciano a dubitare del suo effettivo talento.

Ma come ogni pietra preziosa che si rispetti, c’è bisogno di tanto lavoro ed impegno perché possa brillare al meglio delle sue possibilità. È così che Mick, con la tenacia che lo ha sempre contraddistinto, si mette al lavoro per tentare di limare le imperfezioni della sua guida.

Nel campionato mondiale del ‘90 esordisce male con un ritiro alla prima gara, ma arriva anche la sua prima vittoria, alla penultima corsa in Ungheria. L’anno seguente il livello delle sue prestazioni continua a salire, con le vittorie in Spagna, Italia e Austria. Alla fine della competizione sarà secondo, dietro solo all’americano Wayne Rainey della Yamaha.

Ancora una volta i tempi sono maturi e Mick si prepara per il grande colpo, quel primo posto al Motomondiale che sembra il coronamento perfetto della sua evoluzione motociclistica. Il 1992 comincia effettivamente alla grande, con 5 vittorie nelle prime 7 gare, che gli fanno spiccare il volo nella classifica piloti.

Ma l’inaspettato era dietro l’angolo – precisamente ad Assen – ed aspettava Mick Doohan per mischiare le carte e sconvolgere tutti i suoi piani di trionfo sul Motomondiale.

L’incidente, l’operazione e il Dottor Costa

È il 27 giugno del 1992 e i piloti stanno svolgendo le prove del Gran Premio di Assen, in Olanda. Mick Doohan è vittima di una caduta, come molte altre della sua carriera, a causa della quale riporta una frattura della gamba destra. Dopodiché, l’impensabile: la Honda spinge perché rientri in gara e vinca il Motomondiale, l’australiano viene operato in fretta e furia e le conseguenze sono disastrose. Per un errore dei medici, il pilota di Brisbane rischierà di perdere la gamba per cancrena.

Per tentare di salvare la gamba (e la carriera) di Mick fu chiamato il Dottor Claudio Costa, medico italiano già noto nell’ambiente motociclistico dell’epoca. L’azione del chirurgo fu tempestiva quanto anticonvenzionale: prelevò l’australiano dall’ospedale olandese dove era ricoverato, lo portò rapidamente in Italia e intervenne con mezzi non proprio tradizionali.

L’entrata in gioco del luminare Dottor Costa fu provvidenziale per dare una chance alla gamba di Mick, il coraggio e la voglia di non arrendersi dell’australiano fecero il resto. Contro tutte le aspettative – e anche contro molti pareri discordanti – il pilota della Honda risalì in sella il 23 agosto (a meno di due mesi dal grave incidente) e gareggiò nelle ultime due sfide del mondiale.

Purtroppo la ferita era ancora troppo recente, il terrore dell’incidente ancora troppo vivo, il dodicesimo e il sesto posto non bastarono a Doohan, che dovette accontentarsi del secondo posto sul podio dietro all’americano Rainey.

La rinascita ed il successo

Questa per Mick Doohan non è assolutamente la fine, ma l’inizio di una nuova vita che sarò costellata di grandi successi e soddisfazioni. Mick continua a zoppicare e utilizzare il pedale destro per il freno posteriore è diventato impossibile. Il campione australiano deve trovare un modo per reinventarsi, per cambiare stile di guida e tornare ai livelli che gli appartengono.

La soluzione fu tanto semplice quanto geniale: la Brembo progettò un comando manuale che, posto alla sinistra del manubrio, gli permetteva di gestire il freno posteriore col pollice. Nacque così il freno posteriore a pollice, che tutt’oggi è utilizzato da professionisti di tutto il mondo, per ottenere maggiore sensibilità nella frenata e avere un controllo più preciso.

Costretto a fare “di necessità virtù”, Mick Doohan visse il Motomondiale del 1993 come un banco di prova, con gli occhi del mondo puntati addosso, cercando di dimostrare di essere davvero in grado di tornare il campione che tutti conoscevano. Il campionato non fu esaltante, una sola vittoria a San Marino e un quarto posto finale che gli stava stretto.

Ma il meglio doveva ancora venire.

Dal 1994 al 1998 Mick mette in scena uno spettacolo senza paragoni, dominando il Motomondiale e portando a casa 5 titoli consecutivi. Il campione australiano entra nella leggenda di prepotenza, scrollandosi di dosso tutte le paure e le malelingue che lo davano per spacciato dopo l’incidente di Assen.

Quel triste giorno del ‘92 non l’ha spaventato e non gli ha tolto la grinta che lo ha sempre contraddistinto, ma di sicuro lo ha profondamente cambiato, costringendolo a tirare fuori il suo meglio. Un uomo, Mick, noto per essere sicuro di sé fino ai limiti dell’arroganza. Non un “uomo da spogliatoio” e sicuramente non il più amato nel paddock.

Ma la sua scorza dura gli ha permesso di passare, nel giro di pochi anni, dal rischio di perdere una gamba alla vetta più alta del mondo motociclistico. Una storia che ha dell’incredibile, se si pensa a quante occasioni avrebbe avuto Doohan per arrendersi al destino, anche giustificatamente.

Invece no, il ragazzo della Gold Coast non si è arreso mai, neanche per un attimo. Ha preso sulle spalle tutte le incertezze e le paure che la vita gli ha presentato, affrontandole a testa alta con coraggio e caparbietà. Per questo è diventato uno di quei personaggi leggendari, che sono dei punti di riferimento per tutti colori che affrontano avversità ogni giorno.

Ecco, quando qualcuno vi chiederà “che cos’è la resilienza”, voi potrete fargli vedere senza timore una foto di Mick Doohan, il campione che ha dovuto toccare il fondo per poter prendere lo slancio e arrivare in cima al mondo!

Questo post è stato originariamente pubblicato su Motowide.com.

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Il Potere del Silenzio

Il Potere del Silenzio

Questa mattina, dopo tanto tempo, ho sentito il mio respiro.

Funziona sempre così. Quando una cosa non fa clamore, non fa rumore, si tende a dimenticarla, ignorarla o sottovalutarla, anche a prescindere dal suo valore.

Tiri su aria dal naso, lo fai migliaia di volte al giorno e questo ti rende vivo, ma da quanto tempo non ne sentivi il suono?

Troppi stimoli, troppi rumori, troppe cose da fare per lasciarsi andare ad un attimo di silenzio ed ascoltare il suono della propria vita.

Il silenzio: come ogni cosa di valore, quando inizia a venir meno, se ne sente improvvisamente la necessità, e si riesce a riscoprirne la sua preziosità reale.

Sotto costante assedio

La giornata comincia con un rumore, quello della sveglia. Prosegue con il suono della radio, il clacson delle auto nel traffico, il vociare delle persone sulla metro.

E in quelle poche occasioni nelle quali il rumore è quasi del tutto tagliato fuori, dove il silenzio potrebbe riuscire a far valere i propri diritti, siamo assaliti dall’imbarazzo.

Abbiamo installato anonime canzonette nell’ascensore, perché il silenzio era troppo assordante. Ci sentiamo in dovere di parlare superficialmente con degli sconosciuti del tempo che fa, delle vacanze, di politica. Tutto, perché abbiamo paura che nel silenzio i nostri cattivi pensieri facciano troppo baccano.

Siamo troppo abituati al rumore, per tollerare il silenzio. Il suono di una notifica, il tormentone alla radio, il nostro collega chiacchierone…

Le nostre orecchie – e di conseguenza il nostro cervello – sono costantemente invase da suoni e rumori, più o meno voluti, più o meno cercati.

Che cos’è il silenzio?

Il silenzio è ciò che ci fa apprezzare i suoni, è lo spazio bianco tra due paragrafi in un testo, è lo stacco tra la nota di pianoforte e la successiva.

Il silenzio è assenza di suono, così come il buio è assenza di luce. E così come il buio ci permette di apprezzare la prorompente vivacità della luce, allo stesso modo il silenzio dà risalto e forza al suono che circonda.

“Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L’animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca.”
Charlie Chaplin

Ne consegue che senza silenzio, non ci può esser suono. Senza buio, non ci può esser luce.

Il silenzio è inoltre il linguaggio universale. Abbiamo difficoltà a comprendere le lingue straniere, difficilmente comprendiamo ciò che viene detto nella nostra lingua. Ma un silenzio, un silenzio ha un significato univoco e inconfutabile.

È grazie al silenzio che riusciamo a dare spazio ai nostri pensieri, a digerire gli stimoli e a dar vita ad un’idea. Il cervello, proprio come tutti gli altri muscoli, non cresce nel momento in cui viene sottoposto a sforzo, bensì quando è a riposo.

È nelle pause dal frastuono giornaliero, che il cervello trova nutrimento per “ingrandirsi” e diventare più performante, rinforzare le sue fibre, consolidare i suoi processi.

È nel silenzio che riusciamo ad ascoltare noi stessi, non nel cicalio di mille voci o nel ritmo tambureggiante di una canzone.

Soli con noi stessi, circondati dal silenzio, possiamo trovare la nostra identità. Analizziamo le nostre esperienze, i nostri desideri, sviluppiamo la nostra capacità di riflettere e quindi di essere senzienti ed esseri senzienti.

Il silenzio nutre il cervello

Oltre a essere una manna per le orecchie, il silenzio è un importante nutrimento per il cervello, gli permette di staccare la spina e rifocillarsi.

“Il vero silenzio è il riposo della mente; è per lo spirito ciò che il sonno è per il corpo, nutrimento e ristoro.”
William Penn

Nel 2006, il dottor Luciano Bernardi, ha monitorato gli effetti rilassanti di diversi tipi di musica sul cervello umano: tenendo d’occhio parametri come la pressione sanguigna e il battito cardiaco, Bernardi ha fatto ascoltare ai partecipanti diversi brani, scoprendo che ogni tipologia aveva un effetto diverso sul cervello.

La scoperta più importante fu però che il maggior tasso di rilassamento aveva luogo durante i due minuti di silenzio tra un brano e l’altro. In pratica, il cervello prova uno stato di rilassamento maggiore subito dopo esser stato sottoposto ad uno stimolo sonoro prolungato.

Interessante anche l’esperimento di Imke Kirst, che ha monitorato 4 gruppi di topi sottoposti alcuni a diversi suoni alcuni al silenzio.

Kirst ha scoperto che i topi esposti al silenzio avevano sviluppato nuove cellule cerebrali, al contrario di quelli esposti ai suoni.

Una sorta di esperimento, ma più che altro una provocazione controversa quanto sottile, arriva dal compositore statunitense John Cage.

A seguito di una visita nella sala anecoica dell’Università di Harvard, dove era possibile “ascoltare” il silenzio assoluto, Cage si stupì di sentire invece i rumori del suo corpo, il suo battito, il sangue, il suo respiro.

Da qui nasce l’ispirazione per 4’33”, opera dello stesso Cage, sicuramente la più discussa e forse la più famosa di uno dei compositori più importanti del XX secolo.

“La vera musica è il silenzio. Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio.”
Miles Davis

4’33” è un brano in tre movimenti composto nel 1952. Tutti i movimenti consistono in un silenzio totale da parte degli strumenti. Lo scopo di Cage è di dare risalto ai rumori naturali e spontanei della sala, invece che al suono ordinato e prestabilito di archi e tamburi.

Ad ogni esecuzione, il brano assume una forma totalmente diversa: una volta è fatto di colpi di tosse e del vocio del pubblico, un’altra volta è composto da uno starnuto, il ronzio di una mosca o una risata.

L’obiettivo di Cage era di dimostrare che il silenzio assoluto non esiste e che esso altro non è che una tavolozza bianca da riempire, che dà risalto ai colori dei suoni, così come un tappeto di velluto nero sottolinea lo splendore dei diamanti.

Enjoy the Silence

Ricapitolando, il silenzio non è il male assoluto, non vi è nulla di imbarazzante in un momento senza suoni e rumori e il cervello sta meglio quando può prendersi una pausa dagli stimoli, anche da quelli sonori.

“Ho cominciato a rendermi conto che si può ascoltare il silenzio e imparare da esso. Ha una qualità e una dimensione tutta sua.”
Chaim Potok

Se il silenzio è una tavola bianca, dobbiamo essere noi, pittori a volte troppo distratti e pasticcioni, a decidere con quali colori (suoni) riempirla.

Possiamo scegliere di riempire le nostre orecchie di musichette insipide da ascensore, del frastuono e del trambusto cittadino o di parole più vuote di quanto in realtà sia lo stesso silenzio.

Oppure possiamo decidere di utilizzare questo magnifico tappeto nero per ammirare la lucentezza dei diamanti che il mondo circostante ha da offrirci, come il fruscio del vento fra gli alberi, il canto di un uccello o il suono di un respiro.

I finlandesi, che di silenzio hanno un’esperienza millenaria, ne hanno capito il valore unico e ne hanno fatto un punto d’orgoglio nazionale. Al momento di progettare il loro piano comunicativo per il turismo, invece di puntare sulle grandi attrazioni naturalistiche, i laghi e la casa di Babbo Natale, hanno puntato sul silenzio.

“Silence, please” è l’invito a chi entra sul sito di Visit Finland e a chi vuole visitare la Finlandia, uno luogo fatto di spazio, tempo, pace e quiete.

I finlandesi, taciturni e riservati per natura, hanno reso “vendibile” un qualcosa che troppo spesso è dato per scontato e superfluo, perché non fa clamore e non fa rumore.

Ma come ogni cosa di valore, quando inizia a venir meno, se ne sente improvvisamente la necessità e si riesce a riscoprirne la sua preziosità reale.

E se i finlandesi hanno deciso di vendere il silenzio come una bellezza architettonica o naturale, noi potremmo almeno sforzarci di riconoscerne il profondo valore, impegnandoci a non gettarlo al vento alla prima occasione.


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L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

Esistono creature che vanno accompagnate per la mano fino al successo.

Il compito di chi dà loro vita non finisce all’atto della creazione, ma continua con la dedizione e il sostentamento che permettono ad un essere fragile di camminare con le proprie gambe.

Questo vale per i film, i libri, le canzoni.

Allo stesso tempo esistono creature che, dal momento in cui vengono al mondo, sfuggono come sabbia dalle mani del proprio autore e cominciano a risplendere di luce propria.

Questa è la storia di “Black“, brano dei Pearl Jam contenuto nell’album d’esordio “Ten”, e di come sia divenuto un successo mondiale, nonostante la testarda opposizione del suo autore, Eddie Vedder.

È il 1993, due anni prima i PJ hanno dato alle stampe il loro primo album, nel pieno della potente e straripante onda grunge che da Seattle stava investendo gli Stati Uniti e il resto del mondo.

I dischi singoli estratti da “Ten” fino a quel punto erano ben 5: due versioni di “Alive”, la struggente storia di attualità del brano “Jeremy”, il pezzo rock da stadio “Even Flow” e la suadente “Oceans”. Ma il pubblico non era ancora sazio, e l’etichetta discografica non chiedeva di meglio che sfarmarlo con un’altra hit da classifica mondiale.

La canzone deputata a trasformarsi in un singolo di successo da passare in radio, non poteva che essere “Black”: la malinconica ballata rock scritta dal frontman del gruppo, che parla di un amore perduto e di un doloroso addio. Una delle canzoni più profondamente intime scritte dal musicista di San Diego, attingendo a piene mani da una sua storia d’amore finita male.

Non è difficile immaginare perché Vedder, alla proposta di pubblicare e promuovere per radio “Black”, si sia fortemente opposto, prendendo le redini decisionali del gruppo e ignorando le suppliche della casa discografica.

 

“Questa canzone parla della perdita (…) è fatta di emozioni troppo intime.”
Eddie Vedder

 

In un album composto da pezzi rabbiosi e cattivi in pieno stile grunge – come “Porch” e “Why Go” – la toccante storia di un amore finito, tra Vedder e una fantomatica fiamma adolescenziale, è un tuffo dritto al cuore del lonely songwriter e della sua più intima natura.

Il cantante dei PJ offre il meglio della sua capacità di storyteller, dopo aver raccontato l’orrore in “Jeremy “e le difficoltà di un rapporto instabile con i suoi genitori in “Alive”.

L’atmosfera che traspare dalle testo è grigia, malinconica e allo stesso tempo dolce, una sorta di spleen in musica e versi narrati dalla voce profonda e calda di Eddie.

 

eddie-vedder

 

Nonostante la volontà di Vedder di tenere sottotraccia questo suo capolavoro, “Black” negli anni ha vissuto di vita propria, diventando – pur non essendo mai stata pubblicata come singolo – un successo planetario e una delle canzoni più conosciute del gruppo di Seattle.

Non è raro che ai concerti il pubblico la richieda a gran voce, ricevendo a volte un gentile ma secco rifiuto da parte del cantante dei Pearl Jam.

 

“Certe canzoni semplicemente non sono fatte per diventare numeri.”
Eddie Vedder

 

Nell’articolo “Five Against the World” di Rolling Stone, è riportato un curioso aneddoto di cui sono protagonisti “Black” e il suo compositore:

 

“Una notte, mentre era seduto su una spiaggia deserta, contemplando la vita dopo la morte di un’amica, la chitarrista Stefanie Sargent delle “7 Year Bitch”, ha sentito delle voci provenienti dalla collina alle sue spalle. Cantavano “Black”, la canzone fragile che per Vedder era diventata il simbolo della commercializzazione della band. Aveva combattuto per evitare che fosse suonata in continuazione, non aveva voluto un videoclip della canzone. Vedder spuntò fuori dai cespugli e chiese a quei ragazzi di non cantare quella canzone.”

 

Per anni sono state rare le situazioni in cui il gruppo rock americano ha eseguito “Black”, e quasi sempre in situazioni più intime, lontano dal frastuono e dalla natura dispersiva dei grandi stadi.

A tutti gli altri fan della band e del grande songwriter in camicia quadrettata, non restava che accontentarsi di ascoltare questo capolavoro in loop, magari preferendo la versione ancora più viscerale del concerto unplugged del 1992 per MTV.

 

 

Il legame così stretto tra il leader dei Pearl Jam e la sua creatura, è la dimostrazione tangibile – semmai ce ne fosse bisogno – della sua doppia anima. La prima, cresciuta in un’adolescenza complicata e alimentata ad alcool e punk rock.

Un’anima sfociata in quelle pericolose arrampicate da capogiro sulle strutture dei palchi, gli stage dive-in e la vita da rockstar.

La seconda, più mite e romantica, è l’anima dell’uomo capace di scrivere brani come Just Breath, album come Into the Wild Soundtrack o Ukulele Songs e di impegnarsi attivamente per rendere il mondo un posto migliore.

Due facce della stessa medaglia, fatta di ombre e di luci, di gioia e di sofferenza, di bianco e soprattutto di nero.

Una storia, quella di “Black”, così personale e gelosamente custodita, ma allo stesso tempo così universale ed empatica, che viene da chiedersi se Vedder non abbia voluto donarla al mondo, per non sentirsi poi così solo.

 

“…the pictures have all been washed in black.”

black-pearl-jam-fan-art
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viaggio sulla luna molies luna con cannocchiale
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Cinema e fantascienza

viaggio sulla luna molies luna con cannocchiale

Cinema e fantascienza

L’eterno gioco a rincorrersi verso il futuro

Il Cinema, forse più di ogni altra forma d’arte, hai il potere di traghettare il suo spettatore in un mondo parallelo, più o meno aderente a quello reale.


Da grandi poteri, si sa, derivano grandi responsabilità. La responsabilità del Cinema sta nel non limitarsi a raccontare una storia (passata o presente che sia) ma nel tentare di precederlase non inventarla.


È così che, sin dai tempi di Viaggio nella Luna di Méliès e Metropolis di Fritz Lang, il Cinema ha cominciato il suo infinito gioco di acchiapparello con la storia dell’umanità.
Un gioco fatto di rincorrersi, superarsi vicendevolmente e reciprocamente influenzarsi.


Attore coprotagonista di questo tango col Cinema, non può che essere la tecnologia, la sua evoluzione e il suo impatto sull’umanità tutta.

La fantascienza è narrativa dell’ipotesi, della congettura o dell’abduzione, e in tal senso è gioco scientifico per eccellenza, dato che ogni scienza funziona per congetture, ovvero per abduzioni.
Umberto Eco

 

Certo, di racconti fantascientifici o di premonizione ne è piena la narrativa, da secoli prima che il cinema vedesse la luce.

Ma è con l’invenzione dei fratelli Lumiere, con le immagini che sembrano venir fuori dallo schermo e che danno forma e colore e suono a ciò che prima era solo nell’immaginazione, che la narrazione fantascientifica conosce la sua più profonda rivoluzione.

Tuttavia, esiste un filone narrativo particolarmente vivo negli ultimi anni, che colpisce diritto nell’immaginario collettivo, forse perché più che mai vicino a ciò che potrebbe realmente avverarsi.

Quel filone di cui fanno parte opere come Her e Transcendence, o le serie tv di successo mondiale Mr. Robot e Black Mirror.

 

black mirror futuro e fantascienza

Perché questi film e serie tv hanno fatto breccia nel cuore di milioni di appassionati?

Gli autori che le hanno concepite hanno svolto un lavoro di minuziosa ricerca. Hanno scandagliato prima di tutto lo stato attuale delle cose, e tecnologie contemporanee e le loro più probabili (e spesso infauste) evoluzioni.

A questo hanno aggiunto la proiezione degli scenari più esasperati, o pericolosi o depravati.

L’ingrediente segreto? La contrapposizione etica tra ciò che rende umani gli essere umani e ciò che invece inchioda la tecnologia a mero strumento asservitogli.

La singolaritàl’intelligenza collettiva, quella artificiale. Sono solo alcuni dei campi di battaglia nello scontro etico tra chi professa la sua dedizione all’evoluzione tecnologica e chi invece, spaventato dalle possibili declinazioni negative, si auspica uno stallo.

Negli ultimi cento anni l’uomo si è tecnologicamente evoluto più di quanto avesse fatto nel resto della sua storia millenaria. Purtroppo però, la consapevolezza delle potenzialità e delle implicazioni del cambiamento in atto, non ha tenuto il passo con l’evoluzione tecnologica stessa.

È per questo motivo che ci troviamo oggi ad avere grandi mezzi tecnologici, ma allo stesso tempo grandi difficoltà al momento di sfruttarli adeguatamente.

Abbiamo una rete internet che avrebbe dovuto rendere il mondo un posto un po’ più piccolo, e invece spesso è un sottobosco di frustrazione e volgarità, che non fa altro che allontanare le persone.

Abbiamo accesso a miliardi di informazioni che corrispondono ad un antico Pozzo di Connla, ma continuiamo ad accontentarci di graffiare al massimo la superficie, disinteressati a cosa ci può essere sotto.

Black Mirror e le opere sorelle mettono a nudo la dilagante incapacità di buona parte del genere umano di far buon uso di ciò che di buono e salvifico offra la tecnologia.

Un’opera che punta i riflettori sulle zone d’ombra dell’immenso e incontrollato potenziale di un’evoluzione che, volenti o nolenti, ci sta profondamente cambiando la vita.

Il Cinema di fantascienza è due forti mani che ci scuotono le spalle e ci costringono a riflettere: è davvero questo l’utilizzo che vogliamo fare del più grande potenziale tecnologico di cui l’uomo sia mai stato in possesso?

Non corriamo il rischio di auto demolirci, proprio come se, appena scoperto il fuoco, l’uomo primitivo avesse cominciato a bruciare tutto quanto intorno a sé?

Stiamo cercando di rendere le macchine più simili all’uomo, ma se continuiamo così saremo noi a diventare delle macchine, degli automi.

Individui sempre connessi, con a disposizione tutto lo scibile umano, ma che sprecano il tutto per condividere gattini sui social o spiare il vicino.


 

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A scuola di storytelling da Bob Dylan

 

bob dylan cover

A scuola di storytelling da Bob Dylan

Da menestrello folk a premio Nobel

Se la decisione dell’Accademia Svedese di assegnare il Premio Nobel per la Letteratura al cantautore statunitense aveva generato scalpore, la scelta di Dylan di non ritirare il premio personalmente ha gettato nella bufera i discorsi riguardo alla prestigiosa onorificenza.

Mentre le motivazioni della mancata accettazione del premio restano oscure (un segno di protesta? un segno di pigrizia?), la riflessione che porta alla scelta di attribuire il premio al menestrello del folk può essere una buona occasione per capire cosa sia effettivamente lo storytelling di cui tutti parlano.

Vedere il nome di Dylan nella stessa lista insieme a personaggi del calibro di Gabriel Garcìa Màrquez, Pablo Neruda e il nostrano Luigi Pirandello, ha fatto storcere non pochi nasi. Questi nasi, sicuramente non collegati alle orecchie, non sono probabilmente riusciti ad annusare e a scovare la grandezza narrativa nascosta dietro le canzoni del cantautore di Hibbing.

Per capire il perché della scelta di Bob Dylan, bisogna capire prima come viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura: esso viene consegnato a chi ha fatto la differenza nel campo della letteratura mondiale che si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale…”. 

Certo, qui ci sarebbe da parlare per ore di cosa sia precisamente la letteratura. Il dizionario Treccani la descrive come “l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina”.

Un’altra interessante definizione può essere : L’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere”.

Trovare una definizione unica e precisa di letteratura, nell’accezione odierna del termine, può essere un’ardua impresa anche per lo studioso più coraggioso. Potremmo sintetizzare e dire che la letteratura è una forma di comunicazione scritta che ha l’obiettivo di trasmettere conoscenza riguardo ad una cultura o un periodo storico.

Questo ci porta dritti dritti alla spiegazione con la quale l’Accademia Svedese ha conferito il Nobel a Dylan: Il signor Bob Dylan, con le sue canzoni e le sue storie in versi, “ ha creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”.

Certo, limitarsi a parlare digrande tradizione della canzone americana” è riduttivo. Bob Dylan, attraverso le sue parole e le sue opere, ha profondamente rivoluzionato l’intera tradizione musicale mondiale. Non c’è angolo della terra dove la sua armonica non risuoni, non esiste paese libero che non passi i suoi canti di protesta alla radio, non c’è musicista che non abbia provato un misto di reverenza e frustrazione nel godere dei suoi lavori (citofonare De Gregori per maggiori informazioni).

bob dylan - premio nobel

Quindi, se il Premio Nobel viene assegnato a persone che si sono distinte nei diversi campi dello scibile, apportando considerevoli benefici all’umanità, in che modo questo riguarda il cantautore statunitense?

Nei suoi tanti anni di attività, Dylan è stato tante cose: icona nella lotta per i diritti umani, punto di riferimento per i movimenti contro la guerra, feticcio del rock e figura pop spesso criticata e tacciata di presunzione. Ciò che non è cambiata nel corso dei decenni, è la capacità del neo-vincitore del Premio Nobel per la Letteratura di raccontare storie, e di raccontarle maledettamente bene.

La forza evocativa delle parole e dei versi delle sue canzoni, la cura per i dettagli e per la struttura della narrazione non hanno niente da invidiare ai migliori maestri della narrativa mondiale.

Colpi di pistola risuonano nel bar notturno
entra Patty Valentine dal ballatoio
vede il barista in una pozza di sangue
grida “Mio Dio! Li hanno uccisi tutti!”
Ecco la storia di “Hurricane”
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto
lo misero in prigione ma un tempo egli sarebbe potuto diventare
il campione del mondo

Hurricane – Desire (1976)

 

Testi spesso enigmatici, dal forte valore evocativo, dai significati nascosti dietro un muro di parole e immagini astratte.

Einstein camuffato da Robin Hood
con i suoi ricordi in un baule
è passato di qui un’ora fa
con il suo amico, un monaco geloso
Sembrava così immacolatamente spaventoso
mentre scroccava una sigaretta
Poi se ne n’è andato via annusando i tubi di scarico dell’acqua
e recitando l’alfabeto
Non lo penseresti mai a vederlo
ma era famoso tanto tempo fa
per suonare il violino elettrico
nel vicolo della desolazione
Desolation Row – Highway 61 Revisited (1965)

Parole di denuncia contro la guerra e le ingiustizie, che con la loro forza e la loro visceralità hanno appassionato e coinvolto milioni di persone in tutto il mondo per circa 50 anni.

Voi che non avete fatto altro
se non costruire per distruggere
giocate con il mio mondo
come fosse il vostro giocattolo
mettete un fucile nella mia mano
e vi nascondete al mio sguardo
vi voltate e scappate lontano
quando volano i proiettili

Master of war – The Freewheelin (1963)

Ascoltare una canzone di Bob Dylan, leggerne il testo, non è solo una lezione di storytelling per tutti gli aspiranti scrittori e poeti. È una vera e propria lezione di umanità ed empatia, un modo per entrare in contatto diretto con la moltitudine di storie che ci circondano, che sono allo stesso tempo così diverse ma così uguali alle nostre.

Ed è per queste ragioni, in conclusione, che il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan è un giusto riconoscimento per un poeta che ha saputo apportare considerevoli benefici all’umanità, raccontandoci storie di vita e di morte, di amori e delusioni, di gioie e dolori.

Venite scrittori e critici 
che profetizzate con le vostre penne 
e tenete gli occhi ben aperti 
l’occasione non tornerà 
e non parlate troppo presto 
perché la ruota sta ancora girando 
e non c’è nessuno che può dire 
chi sarà scelto. 
Perché il perdente adesso 
sarà il vincente di domani 
perché i tempi stanno cambiando.

Time they are a-changing – Time they are a-changing (1964)

pic of richard wright writer
Società

Recensione di “Paura” di Richard Wright

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Paura

di Richard Wright

“Vorrei scagliare le mie parole in questa oscurità e aspettare un eco , e se l’eco risuonasse,
non importa quanto debolmente , vorrei lanciare altre parole per dirlo: marciare,
combattere , per creare un senso di fame per la vita che rode in noi tutti.”

-Richard Wright (American Hunger, 1977)

 

Richard Nathaniel Wright nasce il 4 settembre del 1908 a pochi chilometri da Natchez, capoluogo della Contea di Adams, Missisipi.

Dopo un’infanzia caratterizzata da profondi traumi, tra cui l’abbandono del padre, una grave malattia della madre e l’assassinio di suo zio Silas da parte di persone bianche, si trasferisce prima a Greenwood (1918) e poi dalla nonna materna a Jackson (1920). La difficile convivenza, prima con gli zii e poi con la nonna, rei di costringerlo ad una vita fortemente improntata alla dedizione religiosa (più precisamente Avventista), instilleranno in Wright una profonda insofferenza nei confronti delle pratiche religiose e nel tentativo di trovare in esse una spiegazione, se non una soluzione, alle misere condizioni del popolo afroamericano in quegli anni.

Fu del 1916, infatti, la cosiddetta “Grande migrazione afrostatunitense”, che portò milioni di afroamericani ad emigrare dagli stati del sud, ancora fautori e conservatori una politica schiavista e razzista, verso gli stati del nord e dell’ovest.

Un anno dopo, nel 1917, nella cittadina di East St.Louis (Illinois) ebbero luogo violenti scontri tra afroamericani e americani bianchi. Questi, in rivolta contro le aziende del territorio che avevano assunto i neri come manovalanza (dato che molti bianchi erano partiti per il fronte della I guerra mondiale e nel frattempo non era ancora permesso ai neri di far parte dell’esercito) distrussero diversi palazzi e tolsero la vita ad un 14enne.

Nel 1921 fu Tulsa (Oklahoma) ad esser teatro di violenti scontri tra la popolazione bianca e quella nera. I due ospedali per persone di colore furono bruciati e più di 800 cittadini afroamericani rimasero feriti nei tafferugli. 39 persero la vita.

Wright crebbe dunque nel periodo più atroce e violento della Segregazione Razziale negli Stati Uniti.

” Essi odiano perché temono e hanno paura perché ritengono
che i sentimenti più profondi della loro vita vengono aggrediti e oltraggiati.
E non sanno perché; sono pedine impotenti di un gioco cieco delle forze sociali. “

-Richard Wright (Paura, 1940)

Molto criticato per la violenza e l’asprezza dei suoi scritti, Rirchard Wright fu uno dei primi scrittori – il primo afroamericano a dare alle stampe un best seller – a denunciare le umiliazioni, i soprusi, la segregazione e le ingiustizie perpetrate per decenni nei confronti di milioni di persone di colore. Uno dei primi militanti antirazzisti negli Stati Uniti, che grazie a capolavori autobiografici come Ragazzo Negro, riuscì a sensibilizzare migliaia di persone alla situazione dei neri d’America.

Ma in Paura (Native Son, 1940), forse il suo lavoro più criticato, Wright fece qualcosa di più.

Paura è infatti un’opera di scandagliamento della psiche umana. L’autore, con spietata precisione, non si accontenta di trascrivere superficialmente il rapporto di causa effetto che intercorre tra le barbarie subite dal popolo afroamericano e le relative conseguenze.

Wright propone una visione, quanto mai profonda e cristallina, di quelli che sono i meccanismi della mente umana e di ciò che può portare un individuo qualunque, se messo alla strette, se portato all’esasperazione, a compiere un atto disumano e violento.

Bigger Thomas, protagonista del romanzo di Wright, è un ragazzo nero di una famiglia estremamente povera e che passa le sue giornate tra piccoli lavoretti, più o meno legali, la sua ragazza Bessie e i suoi amici. Quando trova un lavoro presso una facoltosa famiglia bianca della sua città, le cose sembrano cambiare in meglio per lui e la sua famiglia.

Una serie di eventi portano Bigger a fare i conti con i pregiudizi, l’odio razziale e l’oppressione in cui versavano gli afroamericani di metà del XX secolo. Ma soprattutto, e in questo sta la vera grandezza del romando di Wright, il lettore viene portato, in un continuo moto di empatia, a provare ciò che il protagonista prova sulla propria pelle.

Esso soffre, fugge, impreca, odia, combatte e alla fine si arrende all’ineluttabile realtà:

“La violenza è una necessità personale per gli oppressi…Non è una strategia consapevolmente messa a punto. E’ la più profonda espressione istintiva di una individualità negata all’essere umano. “

Nella violenza di Bigger non c’è la sua colpa, non solo. C’è la colpa di chi per anni, decenni, secoli, ha schiavizzato e sottomesso un popolo.

C’è la colpa di chi ha trattato persone alla stregua di essere inferiori e indegni.

C’è la colpa di chi ha privato della dignità e della libertà i propri simili.

C’è la colpa di chi ha taciuto nell’assistere a tutto ciò.

La colpa di chi gli ha negato i diritti fondamentali.

L’assassino non è Bigger, ma la società che ha reso possibile e purtroppo necessario che egli avesse quella paura, una paura così ancestrale e profonda da esulare da qualunque imputazione umana.

Un romanzo quanto mai attuale, quello di Wright, che è un inno e un invito all’empatia e alla riflessione sulle condizioni umane e sulla loro genesi.

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Società

Diritto all’oblio

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Diritto all’oblio

Di diritto all’oblio o diritto all’essere dimenticati online se ne parla ormai da qualche anno e migliaia di opinioni sono state spese per capire se sia giusto o meno avere la possibilità di richiedere la cancellazione delle proprie tracce dal web.

Il diritto ad essere dimenticati online è la possibilità di cancellare, anche a distanza di anni, dagli archivi online, il materiale che può risultare sconveniente e dannoso per soggetti che sono stati protagonisti in passato di fatti di cronaca
Tratto da Wikipedia

Chi potrebbe avere interesse ad avanzare tale richiesta e perché questo potrebbe sollevare, in alcuni casi, una questione etica?

Siamo spesso portati a pensare che la potenza di internet, la sua principale caratteristica, risieda nella possibilità di eliminare le distanze ed interconnettere i quattro angoli della terra in una manciata di decimi di secondo, e nella capacità di offrire, a chi abbia accesso alla rete, un archivio infinito di informazioni e conoscenza.

Questo è ovviamente corretto, ma non esaustivo.

Ciò che spesso passa in secondo piano, se non del tutto ignorato, è la persistenza di queste informazioni sul web.

La capacità della rete di immagazzinare permanentemente le informazioni è al centro di diversi dibattiti, etici e giuridici, quali la privacy e il trattamento dei dati personali, la proprietà delle pagine social personali e, appunto, del diritto all’oblio.

In molti, anche chi non fa dell’informatica il suo pane quotidiano, avranno sentito la frase: quando cancelli i file dal pc, non li cancelli definitivamente.

In effetti, una volta cestinato un file, resta comunque la possibilità di recuperarlo, fino a quando la sua locazione di memoria non verrà sovrascritta o non si utilizzino specifici software per la cancellazione definitiva.

Questo è possibile perché quel determinato file è presente fisicamente sul nostro computer.

Con l’internet, il discorso è più complesso e spigoloso.


Una volta immesse delle informazioni in rete, esse prendono parte all’immenso e aggrovigliato calderone di dati che compone il database dell’internet.

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La criticità sta proprio nella difficoltà nel sapere dove queste informazioni atterrano, chi ne entra in possesso e chi (o cosa) può farne una copia.

Ciò significa che anche dopo la cancellazione di un articolo, una foto o di un account, le informazioni date in pasto alla rete restano comunque nella rete, più o meno visibili tramite i motori di ricerca, più o meno facili da reperire.

La conoscenza, il passato, la storia di ciascuno, restano permanenti a sfidare il tempo e la materialità: impedendo alle informazioni di scomparire, alla memoria di dissolversi e, mancando il processo catartico del dimenticare, agli individui di “alleggerirsi” del passato.”

Antonello Soro – Presidente dell’autorità Garante per la protezione dei dati personali 

Ma chi potrebbe avere interesse a cancellare delle informazioni sul proprio conto presenti online?

Le variabili sono infinite e i casi possono essere i più disparati.

Può esserci la persona intenzionata a nascondere una qualche figura imbarazzante.

C’è inoltre chi semplicemente si ravvede e, preoccupato dalla permanenza di informazioni sensibili, e l’impossibilità di controllarle online, vorrebbe eliminarle.

C’è chi, e questo è il caso che ha sollevato polemiche nei confronti del diritto all’oblio, potrebbe avere interesse nel cancellare dati scomodi, riguardanti illeciti penali o frodi fiscali.

In quest’ultimo caso, cosa è più importante: il diritto della persona a tenere velati i propri trascorsi, o il diritto della società a sapere con chi ha a che fare?

La questione si fa più complessa, se consideriamo quanto sia diffusa ormai l’abitudine di cercare, tramite motori di ricerca online, informazioni sulla reputazione di un determinato individuo.

Ed è proprio qui che nasce la questione etica.

La storia è un diritto umano e una delle cose peggiori che una persona può fare è tentare di usare la forza per metterne a tacere un’altra. Sto sotto i riflettori da un bel po‘ di tempo. Alcune persone dicono cose buone e alcune persone dicono cose cattive. Questa è storia e non userei mai un procedimento legale come questo per cercare di nascondere la verità”.

Jimmy Wales – Fondatore di Wikipedia

È giusto dunque permettere ad una persona di cancellare un passato scomodo o imbarazzante?

Oggi che i motori di ricerca ,e il web in generale, hanno rimpiazzato quasi del tutto giornali cartacei ed enciclopedie nel loro ruolo di principale fonte di informazione, è corretto concedere la facoltà ad un individuo di nascondere, a chi potrebbe essere interessato, qualcosa di compromettente?

Una sentenza della Corte di Giustizia Europea del 13 maggio 2014 (causa Costeja Gonzalese e AEPD contro Google Spain e Google Inc.) riconosce a ciascun individuo la facoltà di richiedere l’oblio dei dati che lo riguardano.

Una decisione che ha fatto scalpore e che trova una forte contestazione, tra gli altri, di colossi del web come Google e Wikipedia.

La sentenza della Corte di Giustizia europea sta minando la capacità del mondo di accedere a notizie accurate e verificabili su persone ed eventi. La Corte Ue ha abbandonato la propria responsabilità di proteggere uno dei diritti più importanti e universali: il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni”

Lila Tretikov – Direttore Esecutivo Wikimedia Foundation

Il motore di ricerca più utilizzato al mondo ha messo a disposizione a questo link il modulo per avanzare la richiesta all’oblio. Sarà Google, tramite le linee guida della Corte di Giustizia Europea, a decidere come e quando procedere.

Al link sopra riportato si può infatti leggere:

Durante la valutazione della richiesta stabiliremo se i risultati includono informazioni obsolete sull’utente e se le informazioni sono di interesse pubblico. Ad esempio, potremmo decidere di non rimuovere determinate informazioni che siano recenti o che riguardino frodi finanziarie, negligenza professionale, condanne penali o la condotta pubblica di funzionari statali.”

Rimane quindi discrezione del motore di ricerca cosa de-indicizzare e cosa invece lasciare fruibile al pubblico.

Bisogna tener conto che, anche nel caso in cui la richiesta all’oblio venisse accettata, Google nasconderà solo i risultati collegati al nome della persona che ne ha fatto richiesta, ma non i risultati raggiungibili tramite altre chiavi di ricerca. Inoltre, dato che la sentenza si applica (ovviamente) solo all’Europa, per accedere ai dati obliati potrebbe essere sufficiente accedere al portale tramite il dominio .com, data l’impossibilità di estendere la giurisdizione anche a domini non appartenenti all’Unione Europea.

L’azienda di Mountain View ha reso noti i dati delle richieste di oblio in Europa dalla famosa sentenza ad oggi:

diritto all'oblio- daniele signoriello- copywriter

Tratto dal Report sulla Trasparenza di Google

A dicembre anche Microsoft, con il suo motore di ricerca Bing, rende possibile inoltre una richiesta all’oblio.

Un lungo e difficile dibattito i susseguirà nei prossimi anni riguardo al diritto all’oblio e le sue implicazioni morali e legali. Da una parte, chi vede nel diritto all’oblio una pratica di pericolosa censura che potrà essere deleteria alla memoria digitale dell’uomo.

Dall’altra parte del fiume, chi vorrebbe concedere ad ogni individuo il pieno controllo della sua storia, anche online, col rischio però di favorire chi voglia nascondere qualcosa di agghiacciante o semplice imbarazzante.

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