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L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

Esistono creature che vanno accompagnate per la mano fino al successo.

Il compito di chi dà loro vita non finisce all’atto della creazione, ma continua con la dedizione e il sostentamento che permettono ad un essere fragile di camminare con le proprie gambe.

Questo vale per i film, i libri, le canzoni.

Allo stesso tempo esistono creature che, dal momento in cui vengono al mondo, sfuggono come sabbia dalle mani del proprio autore e cominciano a risplendere di luce propria.

Questa è la storia di “Black“, brano dei Pearl Jam contenuto nell’album d’esordio “Ten”, e di come sia divenuto un successo mondiale, nonostante la testarda opposizione del suo autore, Eddie Vedder.

È il 1993, due anni prima i PJ hanno dato alle stampe il loro primo album, nel pieno della potente e straripante onda grunge che da Seattle stava investendo gli Stati Uniti e il resto del mondo.

I dischi singoli estratti da “Ten” fino a quel punto erano ben 5: due versioni di “Alive”, la struggente storia di attualità del brano “Jeremy”, il pezzo rock da stadio “Even Flow” e la suadente “Oceans”. Ma il pubblico non era ancora sazio, e l’etichetta discografica non chiedeva di meglio che sfarmarlo con un’altra hit da classifica mondiale.

La canzone deputata a trasformarsi in un singolo di successo da passare in radio, non poteva che essere “Black”: la malinconica ballata rock scritta dal frontman del gruppo, che parla di un amore perduto e di un doloroso addio. Una delle canzoni più profondamente intime scritte dal musicista di San Diego, attingendo a piene mani da una sua storia d’amore finita male.

Non è difficile immaginare perché Vedder, alla proposta di pubblicare e promuovere per radio “Black”, si sia fortemente opposto, prendendo le redini decisionali del gruppo e ignorando le suppliche della casa discografica.

 

“Questa canzone parla della perdita (…) è fatta di emozioni troppo intime.”
Eddie Vedder

 

In un album composto da pezzi rabbiosi e cattivi in pieno stile grunge – come “Porch” e “Why Go” – la toccante storia di un amore finito, tra Vedder e una fantomatica fiamma adolescenziale, è un tuffo dritto al cuore del lonely songwriter e della sua più intima natura.

Il cantante dei PJ offre il meglio della sua capacità di storyteller, dopo aver raccontato l’orrore in “Jeremy “e le difficoltà di un rapporto instabile con i suoi genitori in “Alive”.

L’atmosfera che traspare dalle testo è grigia, malinconica e allo stesso tempo dolce, una sorta di spleen in musica e versi narrati dalla voce profonda e calda di Eddie.

 

eddie-vedder

 

Nonostante la volontà di Vedder di tenere sottotraccia questo suo capolavoro, “Black” negli anni ha vissuto di vita propria, diventando – pur non essendo mai stata pubblicata come singolo – un successo planetario e una delle canzoni più conosciute del gruppo di Seattle.

Non è raro che ai concerti il pubblico la richieda a gran voce, ricevendo a volte un gentile ma secco rifiuto da parte del cantante dei Pearl Jam.

 

“Certe canzoni semplicemente non sono fatte per diventare numeri.”
Eddie Vedder

 

Nell’articolo “Five Against the World” di Rolling Stone, è riportato un curioso aneddoto di cui sono protagonisti “Black” e il suo compositore:

 

“Una notte, mentre era seduto su una spiaggia deserta, contemplando la vita dopo la morte di un’amica, la chitarrista Stefanie Sargent delle “7 Year Bitch”, ha sentito delle voci provenienti dalla collina alle sue spalle. Cantavano “Black”, la canzone fragile che per Vedder era diventata il simbolo della commercializzazione della band. Aveva combattuto per evitare che fosse suonata in continuazione, non aveva voluto un videoclip della canzone. Vedder spuntò fuori dai cespugli e chiese a quei ragazzi di non cantare quella canzone.”

 

Per anni sono state rare le situazioni in cui il gruppo rock americano ha eseguito “Black”, e quasi sempre in situazioni più intime, lontano dal frastuono e dalla natura dispersiva dei grandi stadi.

A tutti gli altri fan della band e del grande songwriter in camicia quadrettata, non restava che accontentarsi di ascoltare questo capolavoro in loop, magari preferendo la versione ancora più viscerale del concerto unplugged del 1992 per MTV.

 

 

Il legame così stretto tra il leader dei Pearl Jam e la sua creatura, è la dimostrazione tangibile – semmai ce ne fosse bisogno – della sua doppia anima. La prima, cresciuta in un’adolescenza complicata e alimentata ad alcool e punk rock.

Un’anima sfociata in quelle pericolose arrampicate da capogiro sulle strutture dei palchi, gli stage dive-in e la vita da rockstar.

La seconda, più mite e romantica, è l’anima dell’uomo capace di scrivere brani come Just Breath, album come Into the Wild Soundtrack o Ukulele Songs e di impegnarsi attivamente per rendere il mondo un posto migliore.

Due facce della stessa medaglia, fatta di ombre e di luci, di gioia e di sofferenza, di bianco e soprattutto di nero.

Una storia, quella di “Black”, così personale e gelosamente custodita, ma allo stesso tempo così universale ed empatica, che viene da chiedersi se Vedder non abbia voluto donarla al mondo, per non sentirsi poi così solo.

 

“…the pictures have all been washed in black.”

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Idee fantastiche e come trovarle

Idee fantastiche e come trovarle

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Pensa all’ultima volta che hai concepito una buona idea e che, almeno per qualche istante, ti è sembrata rivoluzionaria e innovativa. Un momento in cui tutto ti è sembrato facile e illuminato: quel lavoro che ti tiene fermo da settimane, puoi chiuderlo! Quel problema che ti preoccupa da un po’ di tempo, puoi risolverlo senza patemi!

Le migliori idee arrivano, inaspettate e folgoranti, durante i momenti più insospettabili.

Sono pronto a scommettere che quell’idea o quello stato di grazia in cui tutto era più chiaro, è avvenuto molto probabilmente durante la doccia, poco prima di addormentarti oppure facendo una lunga passeggiata.

Perché mai, in determinati momenti della giornata, siamo più propensi a dare alla luce idee geniali che ci erano precluse fino ad un attimo prima?

L’ascensore freudiano

Secondo il padre della psicanalisi, il preconscio è una struttura che fa da ponte tra l’inconscio e il conscio.

Un po’ come se la nostra consapevolezza prendesse l’ascensore, scendesse nello scantinato dell’inconscio, e portasse su degli scatoloni pieni zeppi di idee, ricordi e sensazioni che erano lì, ricoperti dalla polvere e in attesa di essere riportati alla luce.

Spesso, a risvegliare il livello del preconscio e a innescare questo “trasloco” dal basso verso l’alto, è un elemento esterno che riporta la nostra mente a qualcos’altro: un suono, un profumo, una sensazione.

Ciò che possiamo fare, per favorire il ruolo del preconscio, è abbassare le nostre difese e creare le condizioni adatte.

In quali momenti le nostre difese si abbassano e lasciano il campo al libero fluire di idee e inspirazione?

I’m thinking in the rain

La doccia è senz’altro uno dei momenti più rilassanti della giornata. Soprattutto se fatta di sera, rappresenta il traguardo meritato dopo una giornata fatta di lavoro, impegni e ritmi faticosi.

La dopamina prodotta dal nostro cervello agisce in maniera positiva sui pensieri, l’assenza di distrazioni come smartphone e internet ci permette di far viaggiare la mente da un punto all’altro.

Il suono dello scroscio dell’acqua, infine, funge da catalizzatore di idee, e per questo motivo è utilizzato spesso per favorire la meditazione.

La doccia è una sorta di camera di decompressione dopo una giornata piena di stimoli.

A letto con le idee

Il letto, così come la doccia, è un luogo che per la nostra mente rappresenta relax e comfort.

Anche in questo caso, non abbiamo dispositivi elettronici e social media a disturbarci. La mente è carica degli stimoli e delle informazioni della giornata, ma finalmente riesce a prendere il distacco che serve per avere una visione d’insieme.

Come chi, davanti ad un quadro d’artista, fa un passo indietro per poterne apprezzare nel complesso la sua bellezza.

Aggiungerei, infine, che il letto è un posto dove ci sentiamo al sicuro, protetti dall’abbraccio delle lenzuola e/o del nostro partner. In una situazione di sicurezza, la nostra mente osa arrivare a pensieri che poco prima sembravano intangibili.
Passeggiata spensierata

Un altro trucco per dare al preconscio la possibilità  di fare il suo lavoro al meglio, consiste in una bella passeggiata ristoratrice.

La californiana Standford University ha svolto una ricerca per capire la correlazione tra moto e creatività . I risultati dicono che chi cammina mentre pensa, trova soluzioni creative il 60% in più rispetto a chi rimane fermo sul posto. Non è un caso insomma se, pensando a come moltiplicare i suoi quattrini, Zio Paperone camminasse avanti e indietro fino a fare un solco nel pavimento.

Fare movimento, a prescindere che sia in un parco all’aperto o su un tapis-roulant al chiuso, favorisce ancora una volta la produzione di dopamina, allenta la tensione e aiuta a distrarsi da un pensiero che è diventato troppo centrale nella nostra mente, così da poterlo guardare da nuove prospettive.

Bonus track: Daydreaming

Gli anglofoni lo chiamano daydreaming, da noi si chiama “sognare ad occhi aperti”.

Un’attività  che chiunque si sia trovato in situazioni monotone e noiose ha conosciuto e sfruttato per fuggirle.

Passare un po’ di tempo con la testa tra le nuvole, visto da sempre come diversivo per i più distratti a scuola o al lavoro, è in realtà  un ottimo modo per alleggerire la mente da pensieri troppo pressanti o confusi. Sognare ad occhi aperti, serve inoltre a potenziare le nostre capacità  di astrazione e permette al cervello di sondare nuove strade e trovare nuove soluzioni (pensiero divergente).

La prossima volta che avrai bisogno di un’idea geniale o di un nuovo punto di vista per risolvere un problema troppo complicato, fai una doccia, un pisolino, una passeggiata o un viaggio ad occhi aperti: il tuo corpo e la tua mente te ne saranno grati, e il tuo datore di lavoro non potrà  darti dello sfaticato!

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Quando il lavoro si fa duro…i duri iniziano a giocare

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Nella nostra cultura, la voragine concettuale tra lavoro e gioco, è ampia e irriducibile almeno quanto quella tra le coste della Calabria e quelle della Sicilia.

Pochi temerari osano navigare le burrascose acque che dividono le due sponde, con l’obiettivo quasi utopico di unire sacrificio e divertimento.

Lavoratori disinteressati

L’incapacità (o l’impossibilità) di unire questi due aspetti fondamentali della nostra vita, porta a quella che viene oggi definita come employee engagement crisis: la perdita, da parte dei lavoratori dipendenti, di ogni forma di motivazione e soprattutto interesse in quel che fanno.

Quando il lavoro assopisce lo spirito, bisogna guardare al mondo dei giochi, per ritrovare coinvolgimento e motivazione

Le cause di questa perdita di entusiasmo?

Ritmi di lavoro insostenibili, l’assenza di comunicazione con il management, nessun riconoscimento o feedback, la difficoltà di trovare un obiettivo comune e ben preciso.

L’agenzia americana di analisi e consulenza del lavoro Gallup, ha stimato che nel mondo solo il 13% dei lavoratori dipendenti si sente engaged, ossia realmente coinvolto e interessato ai meccanismi e allo sviluppo della propria azienda.

Il lavoro è un gioco

Prendete una persona che conoscete e che è realmente entusiasta del suo lavoro. Tralasciando per un attimo il lato economico e il prestigio che una posizione lavorativa può presentare, quali sono gli aspetti che lo gratificano?

Probabilmente vi parlerà del piacere della sfida, del confronto o della sana competizione coi colleghi, del raggiungimento di un obiettivo e della ricompensa finale. Tutti aspetti che caratterizzano il divertimento prodotto da un gioco.

Non stiamo parlando del divertimento che si può provare ad una festa tra amici o ad uno spettacolo comico, bensì di una sorta di divertimento stimolante che è frutto di concentrazione, partecipazione e complessità.

Hard fun e Teoria del Flusso

Il pedagogista e informatico americano Seymour Papert, proprio per sottolineare la differenza tra i due tipi di divertimento descritti sopra, ha coniato il termine hard fun.

Hard fun, letteralmente “divertimento arduo”, indica uno stato di piacere generato dal cimentarsi e superare le difficoltà durante una prova complessa.

Prendiamo ad esempio un giocatore di scacchi: raramente ne vedrete uno sorridere e trotterellare durante un partita, ciò non toglie che il gioco gli provochi un’intensa soddisfazione, una trance agonistica che cancella per un breve periodo i segni della stanchezza, della fame e del sonno.

Il concetto di trance è ripreso dallo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi nella sua famosa teoria del flusso: una condizione durante la quale un’attività riesce a “monopolizzare” tutte le nostre attenzioni ed energie, facendoci perdere la cognizione del tempo e la percezione degli stimoli interni o esterni.

Così, allo stesso modo, il bambino che gioca ai videogiochi e l’artigiano che porta avanti con passione il suo lavoro, non si accorgono delle ore che passano leggere e piacevoli.

player chess and wine

Le regole del gioco

Per questo motivo, è importante operare una sorta di lucidicizzazione del lavoro, sottometterlo alle regole che sono proprie del “gioco impegnato” e che lo rendono tanto interessante e accattivante.

Seguendo le indicazioni di Csíkszentmihályi, possiamo elencare i fattori necessari affinché un lavoro sia stimolante e gratificante:

  • Avere chiari gli obiettivi: sapere cosa vogliamo raggiungere tramite il lavoro e in che modo

  • Feedback continui: il consiglio o la critica costruttiva di colleghi e superiori

 

  • Sfide alla portata: intraprendere lavori che siano effettivamente al nostro livello

 

  • Avere il controllo: essere attivi nei confronti del lavoro, e non subirlo passivamente

 

  • Imparare dagli errori: la possibilità di sapere dove abbiamo sbagliato e come evitare di ripetere l’errore in futuro

 

  • Ricompensa: il meritato premio e la gratifica personale

 

pic of rubic cube

Il lavoro, nel bene o nel male, impegna circa un terzo della nostra vita, ed è uno dei più importanti strumenti di autorealizzazione, sia dal punto di vista della crescita personale che del rapporto interpersonale.

Dovremmo tener ben presente che, così come per la crescita e lo sviluppo dei bambini, le regole del gioco ricoprono un ruolo di primo piano anche nella vita degli adulti, e magari tatuarci sulla pelle la saggia citazione che dice:

L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare.
George Bernard Shaw

 

 

 

picasso guernica daniele signoriello copywriter
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Di cosa parliamo quando parliamo di creatività

picasso guernica daniele signoriello copywriter

Quando sento definire una persona o un’idea creativa, mi viene la pelle d’oca.

Ciò che mi fa rabbrividire è la leggerezza con la quale troppo spesso si dà a questo concetto una parvenza di esclusività: la creatività vista come un lusso per pochi eletti, fortunati e senz’altro invidiabili.

Decantata, amata, invidiata e sottovalutata. La creatività è un dono del destino oppure una competenza che si apprende?

Ma davvero la capacità di creare o pensare nuove cose e nuove idee è facoltà esclusiva di artisti, intellettuali e grandi pensatori?

La creatività quotidiana

Personalmente, ho sempre visto la creatività non come un talento ricevuto in dono alla nascita, né tanto meno una competenza che si acquisisce con lo studio o tramite un preciso corso universitario. Certo, la si può affinare e soprattutto allenare, ma non imparare sui banchi di scuola come con la geografia o la storia.

Più plausibilmente, la creatività è un’ attitudine, una modalità di pensiero, un tipo di approccio alla vita in tutti i suoi aspetti.

Non è forse creativo il giovane innamorato che si ingegna, pur non essendo scrittore di professione, per creare una lettera d’amore alla sua bella?

Non è forse creativo l’imprenditore che, pur non facendo della creatività il suo pane quotidiano, se ne serve per dare vita e sussistenza alla sua impresa?

Vecchi ingredienti, nuove ricette

Cos’è, dunque, questa chimera che tanti professano, ostentano e inseguono?

Sintetizzando il pensiero del matematico, fisico e filosofo naturale francese Henri Poincaré, potremmo dire che la creatività è il processo con il quale si uniscono elementi già esistenti attraverso collegamenti del tutto nuovi.

La creatività, quindi, non ha a che fare tanto con la creazione di qualcosa (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, no?), ma piuttosto con la capacità di trovare inediti punti di vista su qualcosa che è già stato inventato, nuove ricette per impastare vecchi ingredienti.

La creatività è la capacità di trovare inediti punti di vista su qualcosa che è già stato inventato, nuove ricette per impastare vecchi ingredienti.

creatività daniele signoriello copywriter

Le condizioni per la creatività si devono intrecciare: bisogna concentrarsi. Accettare conflitti e tensioni. Rinascere ogni giorno. Provare un senso di sé – Eric Fromm

Respira e lasciati ispirare

Mi è capitato più volte di sentire o leggere, all’interno di un contesto informatico, la frase “reinventare la ruota”. Ciò ha a che fare con l’inutilità, per i progettisti, di scervellarsi per creare qualcosa daccapo, quando qualcun altro l’ha precedentemente fatto.

Cosa c’entra questo con la creatività? I Rolling Stones, idoli di più generazioni che hanno rivoluzionato il rock, non hanno preso in prestito (o tratto ispirazione) dal blues di Muddy Waters e Robert Johnson?

Quentin Tarantino, tra i registi più apprezzati del nostro tempo, non ha forse attinto a piene mani nel repertorio cinematografico di grandi maestri come Sergio Leone o Jean-Pierre Melville?

In realtà, le potenzialità creative di un individuo sono strettamente legate alla sua capacità di lasciarsi influenzare dagli stimoli che lo circondano. Se prendessimo una persona e la lasciassimo vivere in una stanza vuota, senza libri, film o musica, sarebbe in grado di produrre qualcosa di bello?

“I buoni artisti copiano, i grandi rubano”
Pablo Picasso

Copia consapevolmente

D’accordo, questo non vuol dire che per essere creativi basti farsi bombardare passivamente dai prodotti della creatività altrui. Tanto meno la copia selvaggia (o meglio il plagio) del lavoro di qualcun altro può portare ad un risultato, se non ad una brutta figura o ad una denuncia di furto di proprietà intellettuale.

La creatività non è un processo meccanico, non la si impara a tavolino, come già detto.

Vedo la creatività come un grande frullatore: si prendono delle informazioni e degli stimoli, si aggiungono delle influenze e delle ispirazioni, un pizzico (si fa per dire) di concentrazione e tanta perseveranza.

Vi si aggiunge la competenza tecnica di un determinato campo: puoi essere creativo quanto vuoi, ma se non hai studiato architettura non sarai mai un Renzo Piano!

L’ingrediente segreto? L’insight, l’intuizione, la visione. La polvere magica che amalgama tutti gli ingredienti e crea il nuovo collegamento.

Si lascia sedimentare il tutto per un po’, magari lontano da ulteriori sovraccarichi di informazioni o stimoli. Questo è il motivo per il quale tanti artisti vivono dei periodi di isolamento. Alcuni altri, sono capaci di isolarsi, o meglio alienarsi, per cullare una propria idea anche in mezzo al caos.

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