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L'Architettura dell'Informazione
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Architettura dell’informazione: definizione, approfondimenti e corsi di formazione

L’architettura dell’informazione è un campo cruciale nell’ambito dell’ingegneria dell’informazione, della comunicazione e del digital marketing. Si tratta di un approccio strategico alla progettazione e organizzazione delle informazioni per migliorare l’accessibilità, l’usabilità e l’esperienza complessiva degli utenti. In questo articolo, esploreremo cosa sia l’architettura dell’informazione e come giochi un ruolo fondamentale nei contesti digitali e di marketing.

Architettura dell’informazione: cos’è e cosa comporta

L’architettura dell’informazione è il processo di progettazione, organizzazione e strutturazione delle informazioni per facilitarne la comprensione e l’accesso. In altre parole, si tratta di creare una struttura logica e intuitiva che permetta agli utenti di trovare ciò di cui hanno bisogno in modo rapido ed efficiente.

Nel campo della comunicazione, l’architettura dell’informazione svolge un ruolo cruciale nel garantire che il messaggio desiderato raggiunga il pubblico target in modo chiaro ed efficace. La progettazione di siti web, documenti e altri supporti informativi richiede un’architettura dell’informazione accurata per garantire che il contenuto sia presentato in modo coerente e facilmente comprensibile. Ciò contribuisce a migliorare l’esperienza dell’utente e a consolidare il messaggio comunicativo.

Nel mondo digitale, dove l’accesso all’informazione è istantaneo, l’importanza dell’architettura dell’informazione diventa ancora più centrale. La progettazione di interfacce utente intuitive, la categorizzazione efficace dei contenuti e la navigazione senza sforzo sono tutti elementi chiave di un’architettura dell’informazione ben strutturata. Questo non solo migliora l’usabilità, ma favorisce anche il coinvolgimento degli utenti e la fidelizzazione.

Nel campo del marketing, l’archiettura dell’informazione gioca un ruolo di primo piano nel plasmare la percezione del marchio e nell’influenzare il comportamento degli utenti. Una corretta architettura dell’informazione nei siti web e nelle piattaforme di marketing online assicura che i visitatori possano facilmente accedere alle informazioni chiave sui prodotti o servizi offerti. Inoltre, contribuisce a creare un percorso coerente attraverso il quale i potenziali clienti possono essere guidati, migliorando così le conversioni.

Architettura dell’informazione: i concetti chiave

L’architettura dell’informazione si basa su alcuni elementi fondamentali che contribuiscono a organizzare e strutturare le informazioni in modo efficace. Ecco alcuni dei concetti chiave:

  • struttura gerarchica: organizzare le informazioni in modo gerarchico, con categorie e sottocategorie chiare, facilita la navigazione
  • etichettatura efficace: utilizzare etichette chiare e intuitive per indicare il contenuto, migliorando la comprensione e la ricerca
  • navigazione intuitiva: creare percorsi di navigazione logici e intuitivi per guidare gli utenti attraverso il contenuto in modo fluido
  • coerenza visiva: mantenere una coerenza visiva in tutto il design per stabilire una forte identità di marca e migliorare il riconoscimento da parte dell’utente
  • test utente: raccogliere feedback attraverso test utente per identificare e risolvere eventuali problemi di usabilità.

In conclusione, l’architettura dell’informazione è una disciplina chiave che accomuna il lavoro di ingegneri dell’informazione, esperti di comunicazione e marketer nell’obiettivo di ottimizzare la presentazione delle informazioni in modo strategico. Investire nella progettazione accurata dell’architettura dell’informazione non solo migliora l’esperienza degli utenti, ma costituisce anche una componente fondamentale per il successo nelle sfide digitali e di marketing di oggi.

L’architettura dell’informazione è un campo cruciale nell’ambito dell’ingegneria dell’informazione, della comunicazione e del digital marketing. Si tratta di un approccio strategico alla progettazione e organizzazione delle informazioni per migliorare l’accessibilità, l’usabilità e l’esperienza complessiva degli utenti. In questo articolo, esploreremo cosa sia l’architettura dell’informazione e come giochi un ruolo fondamentale nei contesti digitali e di marketing.

 

Architettura dell’informazione: cos’è e cosa comporta

L’architettura dell’informazione è il processo di progettazione, organizzazione e strutturazione delle informazioni per facilitarne la comprensione e l’accesso. In altre parole, si tratta di creare una struttura logica e intuitiva che permetta agli utenti di trovare ciò di cui hanno bisogno in modo rapido ed efficiente.

Nel campo della comunicazione, l’architettura dell’informazione svolge un ruolo cruciale nel garantire che il messaggio desiderato raggiunga il pubblico target in modo chiaro ed efficace. La progettazione di siti web, documenti e altri supporti informativi richiede un’architettura dell’informazione accurata per garantire che il contenuto sia presentato in modo coerente e facilmente comprensibile. Ciò contribuisce a migliorare l’esperienza dell’utente e a consolidare il messaggio comunicativo.

Nel mondo digitale, dove l’accesso all’informazione è istantaneo, l’importanza dell’architettura dell’informazione diventa ancora più centrale. La progettazione di interfacce utente intuitive, la categorizzazione efficace dei contenuti e la navigazione senza sforzo sono tutti elementi chiave di un’architettura dell’informazione ben strutturata. Questo non solo migliora l’usabilità, ma favorisce anche il coinvolgimento degli utenti e la fidelizzazione.

Nel campo del marketing, l’archiettura dell’informazione gioca un ruolo di primo piano nel plasmare la percezione del marchio e nell’influenzare il comportamento degli utenti. Una corretta architettura dell’informazione nei siti web e nelle piattaforme di marketing online assicura che i visitatori possano facilmente accedere alle informazioni chiave sui prodotti o servizi offerti. Inoltre, contribuisce a creare un percorso coerente attraverso il quale i potenziali clienti possono essere guidati, migliorando così le conversioni.

 

Architettura dell’informazione: i concetti chiave

L’architettura dell’informazione si basa su alcuni elementi fondamentali che contribuiscono a organizzare e strutturare le informazioni in modo efficace. Ecco alcuni dei concetti chiave:

  1. struttura gerarchica: organizzare le informazioni in modo gerarchico, con categorie e sottocategorie chiare, facilita la navigazione
  1. etichettatura efficace: utilizzare etichette chiare e intuitive per indicare il contenuto, migliorando la comprensione e la ricerca
  1. navigazione intuitiva: creare percorsi di navigazione logici e intuitivi per guidare gli utenti attraverso il contenuto in modo fluido
  1. coerenza visiva: mantenere una coerenza visiva in tutto il design per stabilire una forte identità di marca e migliorare il riconoscimento da parte dell’utente
  1. test utente: raccogliere feedback attraverso test utente per identificare e risolvere eventuali problemi di usabilità.

In conclusione, l’architettura dell’informazione è una disciplina chiave che accomuna il lavoro di ingegneri dell’informazione, esperti di comunicazione e marketer nell’obiettivo di ottimizzare la presentazione delle informazioni in modo strategico. Investire nella progettazione accurata dell’architettura dell’informazione non solo migliora l’esperienza degli utenti, ma costituisce anche una componente fondamentale per il successo nelle sfide digitali e di marketing di oggi.

 

Architettura dell’informazione: approfondimenti, libri e corsi di formazione

L’architettura dell’informazione è un campo ampio e interdisciplinare che copre diverse aree, influenzando numerosi settori e professioni. Per questo motivo è importante scegliere gli strumenti e i canali giusti per studiarne le infinitesimali sfaccettature. Ecco alcuni approfondimenti, libri e corsi di formazione sul tema.

Migliori libri sull’architettura dell’informazione

  • Sense-making. Organizzare il mare dell’informazione e creare valore con le persone – di Luca Rosati: Luca Rosati è uno dei più importanti esperti di architettura dell’informazione in Italia (docente universatario, consulente e scrittore di 4 libri sul tema, tra cui questo volume che, con esempi pratici, ci spiega come organizzare le informazioni e dare loro un senso e un valore.
  • Manuale di sopravvivenza per UX Designer – di Matteo di Pascale: Matteo di Pascale è un creativo multidisciplinare e ha lavorato come UX/UI designer e digital art director per aziende internazionali come Samsung, OnePlus e Whirlpool; il suo volume è incentrato sull’UX Design, ossia su come organizzare e presentare le informazioni in modo da migliorare l’usabilità di un prodotto (spesso digitale) e migliorare di conseguenza l’esperienza dell’utente.
  • Don’t make me think – di Steve Krug: Steve Krug è uno degli esperti più noti al mondo dell’architettura dell’informazione e dello user experience design e questo è il suo libro più noto con il quale, in termini semplici e con tante illustrazioni, Krug propone il suo approccio basato sul “buon senso all’usabilità del Web (e dei dispositivi mobili)”.

Migliori corsi sull’architettura dell’informazione

  • Corso di architettura dell’informazione di Luca Rosati: come detto, oltre ad essere un prolifico scrittore e un consulente per aziende di primo piano, Luca Rosati è anche un formatore, e in questo corso per principianti mette a disposizioni le sue competenze e la sua esperienza in un workshop dal taglio pratico e immediatamente spendibile.
  • Architettura dell’Informazione e User Experience di IULM: più corposo e completo il corso dello IULM, un master executive per neo-laureati e professionisti che vogliano approfondire le proprie consocenze di UX e architettura dell’informazione, per essere in grado di progettare siti, applicazioni desktop e mobile, intranet, gestire la comunicazione digitale per le aziende e per la pubblica amministrazione, organizzare spazi informativi complessi.
  • User Experience Design di POLI.Design: la società in capo al Politecnico di Miano organizza questo approfondito percorso con lezioni e attività pratiche per professionisti del digital che vogliano apprendere metodi e strumenti della User Experience (UX), dalla ricerca con gli utenti alla prototipazione, fino alla valutazione qualitativa.

 

illustrazione sull'intelligenza artificiale che prende spunto dal quadro "la creazione di Adamo" di Michelangelo
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Intervista all’Intelligenza Artificiale sulla creatività

Cos’è la creatività e qual è il suo rapporto con l’intelligenza artificiale? Riusciranno gli algoritmi a sostituirci anche nei lavori più creativi, o la capacità di generare qualcosa dal nulla resterà una prerogativa umana? Cosa c’è nel genio umano che non è (ancora) riproducibile da un sistema informatico evoluto?

L’ho chiesto direttamente all’intelligenza artificiale (Chat GPT 3.5) e le sue risposte sono – almeno in parte – rassicuranti.

1 – Cos’è la creatività?

La creatività è la capacità di generare idee, concetti, soluzioni o espressioni originali e innovative. È la capacità di pensare in modo non convenzionale, di vedere le cose da angolazioni diverse e di combinare concetti esistenti per creare qualcosa di nuovo e unico.

La creatività può manifestarsi in vari settori, tra cui arte, scienza, letteratura, musica, tecnologia, design e molti altri. La creatività coinvolge spesso l’immaginazione, la curiosità e la capacità di esplorare nuovi territori mentali. Può portare alla creazione di opere d’arte, invenzioni, prodotti innovativi, strategie di business fuori dagli schemi e altro ancora.

La creatività è fondamentale per l’innovazione e il progresso in molti campi, poiché consente di superare i limiti esistenti e di sviluppare nuove idee che possono portare a cambiamenti significativi. Le persone creative possono avere diversi modi di pensare e di avvicinarsi ai problemi. Spesso sono disposte a sfidare lo status quo, a prendere rischi e ad esplorare nuovi territori intellettuali. La creatività può essere coltivata attraverso la pratica, l’esplorazione continua e l’apertura mentale a nuove prospettive e idee.

2 – Come si può essere creativi?

Essere creativi è una qualità che può essere coltivata e sviluppata. Ecco alcune strategie che puoi adottare per stimolare la tua creatività:

  • Osserva e Ascolta: Prendi nota di ciò che ti circonda. Osserva dettagli, colori, forme e suoni. L’osservazione attenta può ispirarti e farti notare dettagli che potresti aver trascurato in precedenza.
  • Esplora Diversi Settori: Espandi le tue conoscenze esplorando aree al di fuori del tuo campo d’interesse. L’incrocio di idee provenienti da settori diversi può portare a soluzioni innovative.
  • Mantieni una Mente Aperta: Abbraccia il cambiamento e considera prospettive diverse. Sii disposto a esplorare idee che potrebbero sembrarti inizialmente strane o al di fuori della tua zona di comfort.
  • Fai Brainstorming: Libera la tua mente e genera molte idee iniziali senza giudicarle. Il brainstorming può aiutarti a scoprire nuovi collegamenti e concetti.
  • Chiedi Domande Sfidanti: Poni domande che sfidano l’approccio tradizionale ai problemi. Chiediti “E se…” e “Perché no…” per stimolare nuovi modi di pensare.
  • Crea uno Spazio Creativo: Trova un luogo dove ti senti ispirato e libero di esplorare le tue idee. Può essere uno spazio fisico o mentale che ti mette nell’umore giusto per la creatività.
  • Sperimenta: Non aver paura di sperimentare con nuovi materiali, tecniche o approcci. L’atto di sperimentare può portare a scoperte inaspettate.
  • Risolvi Problemi: Affronta i problemi come opportunità per esercitare la tua creatività. Cerca soluzioni fuori dagli schemi e considera più prospettive.
  • Lavora in Gruppo: Collabora con altre persone. Le diverse prospettive possono portare a una combinazione unica di idee e soluzioni.
  • Mantieni uno Spirito Giocoso: Liberati dalle restrizioni e permettiti di giocare con le idee. L’approccio ludico può stimolare la creatività.
  • Prenditi Tempo per Te: Dedica del tempo a te stesso per riflettere, meditare e ricaricare la tua mente. A volte, le idee creative emergono quando ti prendi una pausa dalla frenesia quotidiana.
  • Studia e Apprendi: Continua ad apprendere e ad esplorare nuovi argomenti. L’acquisizione di nuove conoscenze può fornire il materiale grezzo per idee creative.

Ricorda che la creatività è un processo personale e unico. Non c’è un unico modo “giusto” di essere creativi. Sperimenta con diverse strategie e scopri quali funzionano meglio per te.

3 – L’intelligenza artificiale può essere creativa?

Sì, l’intelligenza artificiale (IA) può essere creativa, ma la sua creatività è diversa da quella umana. L’IA può generare contenuti, idee o opere che sembrano originali e innovative, ma è importante capire che l’IA opera basandosi su dati e algoritmi preesistenti, mentre la creatività umana è influenzata da emozioni, intuizioni e comprensione profonda del mondo.

L’IA può essere programmata per eseguire attività creative in diversi settori, come l’arte, la scrittura, la musica e il design. Ad esempio, ci sono programmi in grado di generare dipinti, comporre musica, scrivere testi e persino creare design grafici. Questi sistemi sfruttano l’apprendimento automatico e le reti neurali per imparare dai dati esistenti e produrre nuovi output basati su tali modelli. Tuttavia, l’IA non ha una comprensione intrinseca del significato o delle emozioni come gli esseri umani.

La sua “creatività” è spesso una manipolazione o una combinazione di dati esistenti piuttosto che un’elaborazione di esperienze e sentimenti profondi. Quindi, mentre l’IA può essere straordinariamente brava a generare contenuti che sembrano creativi, manca dell’esperienza umana e della comprensione profonda del contesto culturale e sociale che spesso guida la vera creatività umana. In sostanza, l’IA può emulare la creatività umana fino a un certo punto, ma resta una simulazione basata su dati e algoritmi.

4 – L’intelligenza artificiale sostituirà in futuro l’essere umano nei lavori creativi?

L’idea che l’intelligenza artificiale (IA) possa sostituire gli esseri umani nei lavori creativi è un argomento di dibattito e speculazione. Mentre l’IA ha dimostrato progressi significativi nell’elaborazione del linguaggio naturale, nella generazione di contenuti e in altre attività creative, ci sono ancora diversi fattori da considerare.

Da un lato, l’IA può essere utilizzata per supportare e ampliare le capacità creative umane. Ad esempio, strumenti come il riconoscimento del linguaggio naturale, la generazione automatica di testo e la creazione di musica possono aiutare gli artisti e i creatori a essere più produttivi e a esplorare nuove idee. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti che l’IA potrebbe trovare difficile da replicare completamente, come la profonda comprensione dell’esperienza umana, l’empatia e il contesto culturale. Dall’altro lato, ci sono preoccupazioni riguardo alla sostituzione dell’umanità da parte dell’IA nei lavori creativi.

Molti ritengono che l’aspetto unico della creatività umana sia difficile da replicare da parte delle macchine, poiché coinvolge emozioni, intuizioni e prospettive personali che sono inherentemente umane. Inoltre, l’aspetto dell’originalità è una questione importante. Mentre l’IA può generare nuovi contenuti basandosi su modelli esistenti, la capacità di creare qualcosa veramente originale e innovativo potrebbe rimanere una caratteristica dell’essere umano.

Quindi, mentre è possibile che l’IA continui a svolgere un ruolo crescente nell’ambito dei lavori creativi, è improbabile che sostituirà completamente l’essere umano. Piuttosto, è più probabile che l’IA sia utilizzata come strumento di supporto per arricchire e potenziare le capacità creative umane.

5 – Nell’ambito della creatività, qual è l’elemento umano che l’intelligenza artificiale non potrà mai possedere?

Un elemento umano che l’intelligenza artificiale difficilmente potrà mai possedere appieno è l‘emozione autentica e la profonda comprensione dell’esperienza umana. Le emozioni sono intrinseche all’essere umano e sono spesso radicate in esperienze personali, culture, background e contesti individuali.

Questa dimensione emotiva è spesso un elemento fondamentale nella creazione artistica e creativa, poiché influisce sulla comunicazione e sulla capacità di toccare profondamente gli altri. L’IA può essere programmata per riconoscere ed emulare alcune emozioni superficiali o per generare contenuti che sembrano esprimere emozioni, ma non può sperimentare emozioni nel senso umano autentico.

L’assenza di empatia genuina e la mancanza di esperienze di vita limitano la capacità dell’IA di creare opere artistiche che trasmettano veramente empatia, connessione e profondità emotiva. La comprensione dell’esperienza umana è altrettanto cruciale nell’ambito creativo. Molte opere creative derivano da riflessioni profonde sulle lotte, le gioie, le sfide e le peculiarità della vita umana.

L’IA può analizzare dati e modelli per trarre conclusioni, ma non ha una vera consapevolezza dell’esistenza umana e delle sue sfaccettature. In sintesi, l’emozione autentica e la profonda comprensione dell’esperienza umana sono elementi che rendono unica la creatività umana e che sono difficili da replicare completamente con l’intelligenza artificiale. Questi aspetti contribuiscono alla creazione di opere d’arte e di contenuti creativi che possono toccare il cuore e la mente degli individui in modo unico e personale.

Le conclusioni

Al di là di qualche errore grammaticale e di punteggiatura (che ho lasciato intatti per completezza), le risposte dell’AI sono piuttosto centrate e condivisibili. L’intelligenza artificiale riconosce i suoi limiti nell’ambito della creatività, dichiarando di non avere “una vera consapevolezza dell’esistenza umana e delle sue sfaccettature”.

Essere creativi presuppone un forte legame con la consapevolezza di se stessi e del mondo che ci circorda, avere una spiccata dose di empatia e un’intelligenza emotiva che ci consenta di provare emozioni e sensazioni che sono alla base della scintilla creativa.

La necessità di esprimersi, di dare forma alle proprie idee, alle paure o ai propri bisogni sono caratteristiche prettamente umane, che un’intelligenza artificiale non può simulare, almeno fino a quando non potrà fare esperienza delle più grandiose e più misere avventure che l’essere umano affronta dall’alba dei tempi.

In conclusione, l’intelligenza artificiale ci rassicura sul fatto che il processo creativo (quello realmente autentico) resterà una prerogativa dell’umanità, o quantomeno di quella porzione di umanità che continuerà ad avere la curiosità, il coraggio e la voglia di esplorare nuovi orizzonti per generare qualcosa di originale, lasciando agli algoritmi la creazione di opere raffazzonate, superficiali e posticce. 

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Google Project Management Professional Certificate: cos’è e come funziona

La certificazione professionale in Project Management di Google e gli altri percorsi di “Google Career Certificates” sono visti con grande diffidenza da professionisti, docenti e addetti ai lavori. Cercando informazioni sul web, ho notato che la maggior parte degli opinionisti ha dato una sua versione dei fatti, senza neanche prendersi il disturbo di partecipare al corso professionalizzante di Google. Ho deciso quindi di approfittare dell’occasione, frequentare il corso e fornire un’opinione informata di questa offerta didattica di Big G. Ecco tutto quello che c’è sapere sulla certificazione professionale in Project Management di Google, più le mie considerazioni personali.

Google Project Management Professional Certificate: Cos’è

La certificazione professionale in Project Management di Google fa parte della proposta formativa del colosso americano, ed è pensata per fornire ai suoi studenti conoscenze per essere competitivi sul mercato del lavoro, in ambito principalmente digitale.

Questo percorso formativo, parte del progetto “Google Career Certificates”, si presenta come un’alternativa più leggera, fruibile e pratica ad un tradizionale corso accademico. Si tratta ovviamente di un’offerta didattica interamente online e on-demand, al momento disponibile sono in inglese e in spagnolo.

Qualcuno ne ha parlato come di una “laurea di serie b”, alcuni hanno drammatizzato temendo una svalutazione dei titoli universitari classici, molto più realmente la big tech americana ha semplicemente proposto una strada privilegiata a quei professionisti (o aspiranti tali) che vogliono conoscere o approfondire un argomento, ma non posso permettersi i tempi e/o i costi di un’università.

Lo stesso Kent Walker, vicepresidente senior per gli affari globali di Google, ha specificato che si tratta di corsi che normalmente la sua azienda riserva alla specializzazione dei propri dipendenti in ambito IT. Quindi, nessuna laurea fasulla o attentato all’istruzione tradizionale, ma piuttosto una soluzione più accessibile e rapida per acquisire competenze immediatamente spendibili sul mercato.

Google Project Management Professional Certificate: quanto costa e quanto dura

Il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è disponibile esclusivamente su Coursera, nota piattaforma di e-learning che ospita anche corsi della Yale University, di Meta (Facebook) e IBM. Per accedere al corso, è sufficiente sottoscrivere un abbonamento mensile, attualmente al costo di 32€. La sottoscrizione a Coursera non è legata a Google, questo rende possibile frequentare più corsi contemporaneamente pagando una singola retta.

Non esistono altri costi per la certificazione Google, nessuna tassa di iscrizione e nessun contributo per sostenere l’esame finale e quindi ottenere l’attestazione. Ne consegue che il costo della certificazione è strettamente legato al tempo impiegato per portarla a termine. Con circa 10 ore di impegno a settimana, è possibile arrivare alla fine del percorso formativo in circa 6 mesi. Moltiplicando 32€ per 6 mesi, potremmo dire che la certificazione professionale di Google costa meno di 300€ in tutto.

Google Project Management Professional Certificate: argomenti e moduli

Il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è diviso in 6 moduli:

  1. Foundations of Project Management
  2. Project Initiation: Starting a Successful Project
  3. Project Planning: Putting it all Together
  4. Project Execution: Running the Project
  5. Agile Project Management
  6. Capstone: Applying Project Management in the Real World

Ogni modulo è presentato da uno specialista dell’azienda di Menlo Park, tra project manager, product manager ed esperti di sviluppo informatico. I moduli sono a loro volta suddivisi in “week”, che raccolgono in macro-categorie le singole videolezioni, gli esercizi e i quiz. Per poter progredire e passare da una week all’altra (e quindi da un modulo all’altro) è necessario seguire tutti i video, portare a termine tutti gli esercizi e superare i quiz con una percentuale minima di successo. Alla fine di ogni week, c’è il “weekly challenge”, un test più complesso da svolgere in 50 minuti, composto da risposte multiple, risposte aperte e risposte a scelta singola.

Durante lo svolgimento del corso, è necessario superare alcuni test “peer-graded assignment”: degli esercizi che dovranno essere valutati da altri partecipanti del corso. Per andare avanti, ogni partecipante è obbligato a valutare almeno due studenti, e a sua volta dev’essere valutato positivamente da almeno due studenti. Esiste un forum, suddiviso per moduli e week, che a tratti assume le forme di un mercato rionale, all’interno del quale ogni studente “prega” i suoi colleghi per ricevere una valutazione, pena il restare bloccato in un determinato punto del percorso.

Questo è un aspetto che ho trovato piuttosto macchinoso e malfunzionante: la maggior parte degli studenti guarda a malapena i compiti degli altri, fornendo una valutazione superficiale solo per poter proseguire con i moduli. Coursera ha cercato di sensibilizzare i partecipanti, facendo sottoscrivere un codice d’onore, attraverso il quale ogni studente si impegna a frequentare il corso e valutare i propri colleghi in maniera etica e responsabile. Come per la più tradizionale formazione, anche in questo caso gran parte della responsabilità è affidata alla scelta e alla volontà del singolo studente, che può scegliere arbitrariamente quanto tempo e quante energie dedicare al corso e alla partecipazione attiva alla community.

Google Project Management Professional Certificate: pro e contro

I vantaggi del corso per la certificazione professionale in Project Management di Google sono sicuramente l’economicità, la fruibilità e rapidità di apprendimento che questo tipo di formazione offre. Vale la pena spendere circa 300€ per un corso così strutturato che – seppur non fornendo ovviamente un’istruzione completa – propone un insieme di concetti e contenuti immediatamente spendibili da ogni professionista e in ogni settore. La piattaforma di e-learning è facilmente accessibile da ogni device, quindi è possibile studiare da casa, in viaggio e anche nei ritagli di tempo.

Il fatto che il corso sia 100% online, con lezioni on-demand e con una community internazionale, rappresenta allo stesso tempo un pro e un contro. Il contatto – e quindi lo scambio di idee e conoscenze – con insegnanti e gli altri studenti è praticamente nullo. Il forum assomiglia più ad un anarchico feed social, dove si possono trovare opinioni, messaggi senza senso e caratteri messi lì solo per ottenere la spunta verde su quel determinato passaggio.

 

Google Project Management Professional Certificate: conclusioni e opinioni

Se sei un aspirante project manager, o già ricopri questo ruolo ma senti di avere alcune lacune sui concetti fondamentali, il corso di Project Management di Google fa al caso tuo. Se vuoi capire come perfezionare la gestione dei progetti, ottimizzare tempi e risorse, sia a lavoro che nel tempo libero, allora il corso fa al caso tuo. Se desideri migliorare la tua posizione lavorativa, puntando a ruoli di coordinamento o management, questo corso potrà aiutarti a padroneggiare meglio le dinamiche dei gruppi di lavoro e dei progetti più complessi.

Allo stesso tempo, se pensi che questa certificazione possa spalancare le porte ad ogni colloquio come Project Manager o affini, forse questa non è la strada più giusta. Ad oggi, in Italia, questo tipo di certificazione non ha un peso riconosciuto e un’autorevolezza tale da fare la differenza durante una selezione lavorativa. Il rapporto qualità-prezzo di questa certificazione è senz’altro vantaggioso, considerati i migliaia di corsi che potresti trovare online, ad un prezzo di gran lunga maggiore e con modalità di accesso più complesse.

In conclusione, il corso per la certificazione professionale in Project Management di Google è un’ottima porta d’ingresso allo sconfinato mondo del project management, della metodologia Agile e ad alcuni importanti fondamenti di leadership e team working. Le nozioni che imparerai, seppur molto teoriche, ti aiuteranno a migliorare le tue capacità di gestione dei progetti, soprattutto quelli digitali.

le leggi della simplicità
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Piccola Guida alla Semplicità

Piccola Guida alla Semplicità 

Cominciare a scrivere riguardo alla semplicità può essere un lavoro davvero complesso. Catturare il senso di un argomento così sfaccettato è un’impresa che può farti cadere nell’estrema esemplificazione, oppure sprofondare in un inutile groviglio di concetti (sarebbe il colmo, no?).

Allora comincerei col mettere le cose in fila, come a scuola si affronta un argomento del tutto inedito. Ci si avvicina attraverso una definizione, lo si aggira esaminandolo da diverse angolature e lo si imprime con una citazione colta e lapidaria.

Procediamo con la “santa trinità” dell’apprendimento quindi: definizione, descrizione e citazione.

Una definizione di Semplicità

La Semplicità (d’ora in avanti con la S maiuscola, come si addice ai nobili argomenti), è definita così dai grandi prontuari italiani:

  • il Corriere della Sera definisce la Semplicità come “naturalezza, spontaneità, sobrietà” e poi come “chiarezza, concisione nell’espressione scritta e orale”
  • La Repubblica parla della Semplicità come della “mancanza di complessità, di difficoltà” e anche qui si torna sulla “schiettezza, naturalezza, sincerità”
  • Wikipedia osa e azzarda una definizione più precisa, per la quale il termine Semplicità “è riferibile a qualcosa che è fisicamente costituita da uno o da un numero minimo di elementi essenziali tali da renderla facilmente comprensibile nella sua struttura e agevolmente riproducibile.”

Insomma la Semplicità sarebbe qualcosa che ha a che fare col naturale e lo spontaneo, un ‘entità onesta ed essenziale, facile da digerire e alla portata di tutti. A parlarne così, sembra quasi che la Semplicità sia la cosa più democratica del mondo. E forse lo è.

C’è chi è addirittura arrivato ad innalzare la Semplicità a sinonimo di verità, o quantomeno a proporre la prima come mezzo infallibile per arrivare alla seconda. Il filosofo francescano Guglielmo di Ockham nel XIV secolo postulò: “a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”.

Citazioni sulla Semplicità

Il riferimento alla democrazia della Semplicità deriva dalla sua trasversalità: ogni aspetto della nostra vita può essere (o non essere) semplice, ogni gesto e ogni atto creativo ha l’opportunità – se non il potere – di rispettare le regole della semplificazione.

Ecco perché ho scelto una manciata di citazioni, ciascuna pensata come ispirazione e invito a migliorare le capacità semplificative, a prescindere dall’ambito d’azione, status o ruolo.

La Semplicità per chi si perde nei dettagli:
La nostra vita è trascinata via dai dettagli… Semplificare, semplificare.”  (Henry David Thoreau)

La Semplicità per gli innovatori:
Questo è uno dei miei mantra: concentrazione e semplicità. Il semplice può essere più forte del complesso. Devi lavorare duro per pulire il tuo pensiero e renderlo semplice. Ma alla fine ne vale la pena perché una volta ottenuto ciò, puoi spostare le montagne.” (Steve Jobs)

La Semplicità per gli scrittori:
Un giorno troverò le parole giuste, e saranno semplici.” (Jack Kerouac)

La Semplicità per gli insegnanti:
Se non riesci a spiegarlo a un bambino di 6 anni, non l’hai capito nemmeno tu.” (Albert Einstein)

La Semplicità per chi cerca la verità:
Niente è vero, tranne ciò che è semplice.” (Johann Wolfgang von Goethe)

La Semplicità per gli istrionici:
Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico, e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo.” (Charles Bukowski)

La Semplicità per i creativi:
La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere.” (Antoine de Saint-Exupéry)

La Semplicità per gli amanti del paradosso, con un pizzico di ironia:
La semplicità non è una cosa semplice.” (Charlie Chaplin)

La Semplicità per i designer:
La semplicità è sottrarre ciò che è ovvio ed aggiungere ciò che è significativo.” (John Maeda)

Maeda e “Le leggi della Semplicità”

L’ultima citazione, di John Maeda, è un pretesto per parlare de “Le Leggi della semplicità”, libro pubblicato proprio dall’autore statunitense nel 2006. Un piccolo manuale teorico/pratico sull’importanza di semplificare i processi del design e su come riuscirci.

John Maeda è laureato presso l’illustre Massachusetts Institute of Technology, è riconosciuto come uno dei creativi più influenti degli ultimi decenni e fa parte – tra le altre cose – di Automattic, l’azienda che ha realizzato WordPress.

Le leggi della Semplicità è un trattato di circa 100 pagine, frutto di anni di ricerche ed esperienza nel campo del design, in cui Maeda colpisce dritto al cuore della complessità digitale e tecnologica del nostro secolo, invitandoci ad abbracciare una concezione “più significativa” della nostra vita creativa.

Ecco, in breve, le dieci leggi:

  1. Riduci. Il modo più semplice per conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata.
  2. Organizza. L’organizzazione fa sì che un sistema composto da molti elementi appaia costituito da pochi.
  3. Tempo. I risparmi di tempo somigliano alla semplicità.
  4. Impara. La conoscenza rende tutto più semplice.
  5. Differenze. La semplicità e la complessità sono necessarie l’una all’altra.
  6. Contesto. Ciò che sta alla periferia della semplicità non è assolutamente periferico.
  7. Emozione. Meglio emozioni in più, piuttosto che in meno.
  8. Fiducia. Noi crediamo nella semplicità.
  9. Fallimento. Ci sono cose che non è possibile semplificare.
  10. L’unica. Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo.

John Maeda continua ancora oggi a farsi promotore di un design più semplice ed etico, attraverso il suo sito e una serie di illuminanti discorsi al pubblico.

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Brand Storytelling e le Carte di Propp

Brand Storytelling e le Carte di Propp

Un’azienda è come una persona, ha i suoi pregi e i suoi difetti, i punti forti e i punti deboli, le difficoltà e le potenzialità. E proprio come per le persone, ogni azienda ha una storia, che la rende unica al mondo.

Una storia spesso fatta di successi e insuccessi, difficoltà ed opportunità, sfide complesse e rocambolesche avventure. Ecco perché la narrazione d’azienda (brand storytelling) è da sempre uno strumento potentissimo per i brand che vogliono arrivare al cuore del proprio pubblico.

Raccontare una storia in cui le persone possano rivedere la propria, per un’azienda significa stimolare i più importanti meccanismi che ci spingono a preferire un prodotto rispetto ad un altro: l’empatia e l’identificazione.

Quando una persona rivede le sue paure, le sue speranze e le sue difficoltà all’interno di una narrazione d’azienda, probabilmente sarà più sensibile alla comunicazione del brand, perché in essa riconosce dei valori comuni. Gli individui possono identificarsi con gli eroi dello storytelling aziendale, oppure guardare a loro come a delle figure di ispirazione, da cui trarre lo stimolo e la forza per affrontare il proprio viaggio dell’eroe.

Il viaggio dell’eroe

Il cosiddetto “viaggio dell’eroe” è uno schema classico, proposto nell’omonimo libro dallo sceneggiatore della Disney Christopher Vogler, che individua alcuni elementi ricorrenti all’interno di una narrazione.

In ogni avventura che si rispetti, c’è sempre un “mondo ordinario” che viene in qualche modo scombussolato da una “forza malefica”, per questo motivo il nostro “eroe” è costretto ad intraprendere “un viaggio” che lo porterà ad affrontare delle “prove di coraggio”. Attraverso i suoi poteri e i suoi valori, con l’aiuto di alleati e mentori, l’eroe sconfiggerà la forza malefica e ci permetterà di concludere con un “lieto fine” la narrazione.

Pensando ai successi della Disney, ai libri classici e anche alle più moderne serie tv, quante di queste storie hanno uno schema che riprende “il viaggio dell’eroe” proposto da Vogler? Più o meno evidentemente, tutte queste storie si fondano su questo schema primordiale. Ovviamente, nel corso dei secoli, autori e sceneggiatori hanno cercato di mescolare le carte e proporre delle narrazioni che apparissero sempre nuove. Più o meno come quando si dice che le note musicali sono 7, e i musicisti devono partire da quella base comune per poter creare qualcosa di nuovo.

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Illustrazione de “La bella e la bestia” di KKA Illustration

Schema di Propp

Partendo da questi presupposti, il linguista e antropologo russo Vladimir Propp, ha sviluppato uno studio approfondito delle origine storiche delle fiabe e dei racconti del folklore. Attraverso questo studio, Propp individuò un modello comune a tutte queste narrazioni e costituito da 31 funzioni (Morfologia della Fiaba, Vladimir Propp, 1928).

Tra queste 31 funzioni, troviamo elementi che sono alla base di tutte le vicende che incontriamo sul grande schermo o sui libri di narrativa: c’è l’allontanamento del protagonista da casa, il danneggiamento dell’antagonista nei confronti di un parente/amico/amante dell’eroe, ci sono le prove,le battaglie e la conclusione con la ricompensa finale.

Le 31 funzioni rientrano all’interno di uno schema generale, detto appunto Schema di Propp, costituito da 4 punti essenziali:

  • Equilibrio iniziale (inizio della storia)
  • Rottura dell’equilibrio iniziale (il motivo per cui l’eroe comincia il viaggio)
  • Peripezie dell’eroe (le sfide e le avventure dell’eroe)
  • Ristabilimento dell’equilibrio (lieto fine e ricompensa)

Lo studio dell’antropologo russo, oltre ad individuare gli elementi tipici di una narrazione, determina anche i personaggi archetipi presenti all’interno di ogni storia:

  • l’eroe, ovvero il protagonista della storia
  • l’antagonista, ossia il nemico che si oppone all’eroe
  • il mandante, cioè il personaggio che chiama all’azione l’eroe
  • l’aiutante, il personaggio che spalleggia l’eroe nella sua avventura
  • la principessa o il premio, che è la ricompensa che motiva la partenza dell’eroe per il suo viaggio
  • il donatore, spesso è anche un mentore che addestra l’eroe e gli fornisce i mezzi per sconfiggere il suo nemico

Per capire meglio i personaggi archetipi di Propp, possiamo confrontare questa lista con uno dei più grandi capolavori narrativi degli ultimi secoli: Il Signore degli Anelli.

Leggendo o guardando con attenzione la storia inventata da Tolkien, scopriamo che:

  • l’eroe è Frodo Baggins, il coraggioso hobbit che parte per il viaggio
  • l’antagonista è Sauron, l’entità malefica che mette a rischio il mondo
  • il mandante è il Gran Consiglio di Elrond, che comprende Nani, Elfi e Uomini e che incarica la Compagnia dell’Anello della missione
  • l’aiutante è l’intera Compagnia dell’Anello – in special modo Samvise Gamgee – che accompagna Frodo attraverso le sue avventure
  • la principessa o il premio in questo caso è la salvezza dell’universo
  • il donatore è Gandalf, il mago che sprona Frodo e gli dà i mezzi per portare a termine la sua missione
Illustrazione de "Il Signore degli Anelli" di Kunal Krishna

Illustrazione de “Il Signore degli Anelli” di Kunal Krishna

Le Carte di Propp

Le Carte di Propp sono delle carte che possono aiutarci nella costruzione di una fiaba o di un racconto, attraverso un semplice gioco di società. Le carte sono spesso utilizzate dai maestri per stimolare la creatività e l’immaginazione dei loro piccoli allievi, ma sono adatte anche a chi voglia passare una serata in compagnia o cimentarsi nella creazione di una narrazione.

Le carte sono 21, presentano un disegno e una piccola didascalia che fornisce qualche indizio sul personaggio e la funzione. Una volta distribuite ai partecipanti del “gioco”, ognuno gira le carte durante il proprio turno e aggiunge un tassello alla storia in costruzione.

In questo modo si può realizzare un racconto appoggiandosi ad uno scheletro predeterminato, ma facendo viaggiare la fantasia giocando con i personaggi e le funzioni individuate da Propp.

Certo, per implementare una narrazione di marca efficace non è sufficiente fare una partita a carte. Ci vuole analisi, strategia e obiettivi ben definiti. Ma rifarsi allo schema di Propp e al Viaggio dell’Eroe – come fanno i migliori narratori e produttori cinematografici – ci assicura una linearità e una potenza narrativa estremamente valida, perché è antica ma allo stesso tempo sempre nuova.

Nella peggiore delle ipotesi, avremo impiegato qualche ora a stimolare la nostra immaginazione, che non sarà mai una cattivo affare!

 

 

Come hai potuto leggere, lo storytelling è fondamentale all’interno di un piano di marketing moderno, ma bisogna comprendere che va inserito nell’interno di una più ampia strategia di marketing digitale; qualora volessi approfondire questo argomento, potresti frequentare il corso di Digital Marketing offerto da Digital Coach.

 

Illustrazione di copertina di Sara Kipin

Illustrazione de “La bella e la bestia” di KKA Illustration

Illustrazione de “Il Signore degli Anelli” di Kunal Krishna

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Non ci resta che umanizzare

Perché un brand dovrebbe avere delle caratteristiche umane? Per capirlo, bisogna fare un piccolo passo indietro, per capire cosa ci rende umani.

Le nostre imperfezioni fisiche, prendere decisioni facendoci guidare dalle emozioni, commettere errori e saper distinguere il bene dal male, essere in grado di proiettarci nel futuro e tenere fede a promesse e progetti, godere della compagnia degli altri e impegnarci in qualcosa di utile per la nostra società.

La lista potrebbe andare avanti per ore, ma il punto è semplice e richiede molte meno parole: in quanto umani (e quindi imperfetti), sentiamo il bisogno di comunicare ed interagire con i nostri simili, con altri umani che abbiano una storia alle spalle, dei pregi e dei difetti, delle aspettative e dei sogni.

Questa ricerca di empatia è alla base dell’umanizzazione dei brand che sta trasformando i più grandi marchi del mondo in amici, vicini di casa e perfino confidenti intimi.

Leggendo “Marketing 4.0” di Philip Kotler mi sono soffermato sul capitolo dedicato a questo argomento, sottolineando e prendendo appunti a margine. Il guru del marketing identifica 6 caratteristiche che un brand deve sviluppare, per poter essere considerato un “brand umano”. Potrebbe sembrare un tema scontato o perfino retorico, ma questa umanità oggi serve a tutti, alle aziende prima ancora che ai loro clienti.

Fisicità

I brand, proprio come persone, hanno delle caratteristiche fisiche ben definite. Quello che per gli essere umani sono il colore degli occhi e dei capelli, l’altezza e il peso, nel linguaggio del marchio si traduce in visual identity.

Questa identità visiva per un brand è composta da elementi come il logo, una palette di colori, un carattere tipografico ed altri componenti di design. In sintesi, la “fisicità” di un marchio è quell’insieme di fattori che lo rendono concreto e immediatamente riconoscibile agli occhi dei consumatori.

Tutti ricordiamo il baffo della Nike, il colore verde di Spotify, il simpatico signore con i baffi della Birra Moretti o la disposizione di un negozio H&M.

Intelletto

L’intelletto è la capacità di una persona (e quindi di un brand umano) di dare alla luce delle idee innovative e funzionali, in modo da superare ostacoli e affrontare delle criticità.

Le aziende veramente innovative sono in grado di trovare nuove soluzioni a vecchi problemi, spesso ricorrendo al supporto delle moderne tecnologie. Un esempio è Amazon, che attraverso i “locker” e le consegne coi droni, sta superando il classico problema dell’irreperibilità dei destinatari.

Socialità

Se è vero che “l’uomo è un animale sociale”, anche i brand che mirano ad umanizzarsi hanno bisogno di entrare in relazione con le persone. Creare un dialogo con il proprio pubblico non significa solo scambiare qualche tweet o stimolare interazione attraverso qualche sticker di Instagram.

Un grande esempio di brand che entra in relazione col proprio pubblico è Netflix. La società statunitense è molto sensibile alle critiche e ai pareri dei propri clienti, tanto da creare Bandersnatch, un episodio di Black Mirror in cui è l’utente a decidere l’evoluzione della storia.

Emotività

Ciò che più guida le scelte di un essere umano sono le sue emozioni. Di conseguenza, ciò che distingue un brand umano da tutti gli altri è la capacità di evocare queste emozioni. La gioia, la malinconia, la paura, l’umorismo…attraverso lo storytelling un brand può affrontare le emozioni più viscerali dell’uomo per creare una connessione.

Un esempio è la recente campagna di Wind, chiamata “Più Vicini”. Attraverso i suoi spot, il gestore telefonico tocca le corde del nostro animo che hanno a che fare con amicizia, amore, rimorso e impianto.

Affabilità

Essere umani significa anche avere dei difetti, e riuscire ad ammetterlo è una gigantesca sfida sia per noi che per i brand. Ma una persona (e un brand umano) che sia capace di riconoscere le proprie imperfezioni è una persona (o brand umano) più credibile e in grado di ispirare fiducia.

Un curioso esempio è quello della casa editrice Einaudi: prima sbaglia la copertina di un libro di Fante, poi fa mea culpa, infine ci scherza su con umorismo (nel frattempo la stampa con la copertina sbagliata va a ruba, come oggetto da collezione!).

Ecco l’errore e la soluzione di Einaudi.

Moralità

Ultima, ma non meno importante, la moralità: la capacità di una persona (o un brand umano) di possedere un’etica e di impegnarsi attivamente nella salvaguardia dei propri valori.

Negli ultimi anni il “corporate activism” prende piede tra le imprese più o meno grandi, in virtù della crescente sensibilità dei consumatori nei confronti dell’impegno dei brand sull’ecosostenibilità e l’attivismo sociale.

Ikea promette di essere totalmente eco-sostenibile entro pochi anni, H&M lancia una linea di capi d’abbigliamento eco-friendly e Gilette dichiara guerra alla mascolinità sessista del passato.

In conclusione, citando Kotler:

“il processo (di umanizzazione del brand) consiste nel portare in luce le ansie e i desideri latenti dei consumatori attraverso l’ascolto sociale, la netnografia e la ricerca empatica”.

Questo processo porterà ad un risultato win-win per brand e consumatori. I brand diventeranno portatori di emozioni e valori sani, nonché attivisti sociali e promotori di politiche eco-sostenibili. I consumatori potranno abbracciare la filosofia del brand, sentirsi parte di un gruppo mosso da scopi nobili e continuare ad acquistare in maniera più consapevole.

In copertina l’artwork di Anita Molnar

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Ritorno al Futuro e il Viaggio dell’Eroe

Ritorno al Futuro e
il Viaggio dell’Eroe

Sembra quasi che, come arte, quella di narrare un’impresa sia nata l’altro ieri. Da quando il mondo del marketing ha scoperto che dare un volto umano ai prodotti li rendeva più appetibili, i brand hanno fatto a gara per raccontare a modo loro le imprese più o meno eroiche legate alla propria identità.

Ciononostante, sono secoli e secoli che l’uomo ricorre alla narrazione, che sia per raccontare una storia, fare proseliti o semplicemente esorcizzare le proprie paure. Le forme sono tante e molto diverse tra loro: romanzi, stornelli, poesie, film, canzoni e tutte le forme di espressione che mirano a raccontare una storia.

Ma a prescindere dal mezzo attraverso il quale la storia viene presentata, ogni narrazione ha uno schema ben preciso, torna e ritorna a fare capolino ogni qualvolta un individuo o un’organizzazione sentano la necessità di raccontare sé stessi.

Campbell, Propp e lo schema di Vogler

Lo studioso di mitologia Joseph Campbell ha dedicato la sua vita alla scoperta di un fil rouge che in qualche modo legasse le storie e le avventure degli eroi antichi e moderni, dei protagonisti di fiabe, leggende e libri di narrativa.

Nel suo L’eroe dai mille volti”, Campbell delinea un percorso circolare detto “monomito”, che è presente in ogni storia ma prende ogni volta una forma diversa. Cos’hanno in comune l’eroe antico Ulisse e il Marty McFly di Ritorno al Futuro? Cosa lega l’avventura dell’eletto in Matrix alle peripezie di Alice nel Paese delle Meraviglie?

Esistono dei personaggi archetipi, degli elementi comuni e delle tappe obbligate che caratterizzano il viaggio del protagonista di ogni avventura.

L’autore e sceneggiatore della Disney Christopher Vogler, nel suo Il viaggio dell’eroe”, ipotizza uno schema classico al quale la narrativa si attiene sin dai tempi antichi.

Lo scrittore russo Vladimir Propp è andato oltre, elencando ben 31 funzioni che si presentano all’interno di una narrazione seguendo un ordine preciso. Tra queste funzioni, troviamo gli elementi classici di ogni avventura letta o vista sul grande schermo, tra cui:

  • l’allontanamento dell’eroe dalla propria casa e dai propri affetti
  • la lotta tra eroe ed antagonista
  • la vittoria dell’eroe
  • il ritorno trionfante a casa

Uno schema unico ed antico, che sa reinventarsi in un’infinità di varianti e al quale, più o meno consciamente, tutti i mostri sacri della narrazione si sono attenuti per creare le loro memorabili avventure.

I personaggi e gli elementi

Alla luce di questo, è facile trovare in “Ritorno al Futuro” alcuni dei personaggi e degli elementi che sono comuni a tutti gli esempi di narrazione.

  • Eroe e la partenza: Marty McFly che, per scappare dai terroristi libici, intraprende un viaggio verso l’ignoto
  • Antagonista: Biff, antagonista e antieroe
  • Mentore: Doc Brown, che spiega a Marty i paradossi dei viaggi nel tempo e gli dà gli strumenti per affrontare la sua impresa
  • Impresa: il viaggio indietro nel tempo, la necessità di salvare la sua stessa esistenza, l’amore dei suoi genitori e (forse) la vita dell’amico Doc
  • L’oggetto magico: la mitica DeLorean, lo strumento grazie al quale l’eroe riesce a compiere il suo viaggio
  • La prova centrale e le difficoltà: riuscire a far innamorare i genitori, neutralizzando l’intervento di Biff
  • Il fallimento e il climax: Biff riesce a dividere i genitori di Marty, che lentamente comincia a scomparire, ma non si arrende e trova un modo per mettere fuori gioco l’antagonista
  • La vittoria, il ritorno a casa e la ricompensa: Marty riesce nel suo intento, salva sé stesso e l’amore dei propri genitori, torna casa e viene ricompensato con una famiglia migliore di come l’avesse lasciata

 

L’insegnamento

Al di là dell’avventura e del viaggio “fisico” che vediamo sullo schermo, Marty compie un percorso introspettivo e visibile solo a chi guarda oltre la sceneggiatura del film.

L’eroe intraprende un viaggio dentro di sé, per trovare la forza e il coraggio di affrontare le sue paure e i suoi difetti. Solo quando è capace di sconfiggere i suoi demoni, il protagonista può salvare la principessa del castello.

Perché lo schema narrativo di sottofondo è uguale a migliaia già visti, ma allo stesso tempo sempre diverso e sempre singolare.

È chiaro allora perché lo storytelling e il viaggio dell’eroe attecchiscano così tanto all’immaginario collettivo: la narrazione di un’impresa non è altro che il racconto del viaggio che ognuno di noi intraprende, magari senza avventure rocambolesche e finali da favola, per scoprire l’eroe dentro di sé.

Una bellissima lezione di Matthew Winkler – accompagnata dalla stupenda animazione di Kirill Yeretsky – riassume perfettamente il discorso: cosa rende straordinaria una storia ordinaria (e viceversa)?


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Perché l’Umiltà Migliora la Professionalità?

Perché l’Umiltà Migliora la Professionalità?

La lingua italiana è meravigliosa, sia per la “cantabilità” delle sue parole che per la complessità di alcuni suoi aspetti.

Esistono infatti alcune parole o concetti che richiedono uno sforzo cognitivo davvero notevole per essere pronunciati.

Se penso alle cose più difficili che si possano dire nella lingua italiana, mi vengono subito in mente queste tre:

  • 1. Acido desossiribonucleico
  • 2. Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa
  • 3. Non lo so

Mentre i primi due punti sono degli scioglilingua, che mettono a dura prova le nostre capacità linguistiche e di dizione, il terzo punto è di una complessità totalmente astratta, che ha a che fare con la testa più che con la lingua.

L’incapacità nell’ammettere di non sapere è un limite dell’uomo – di radici antichissime – che Socrate acquisì solo negli ultimi momenti della sua esistenza.

Ma perché la dotta ignoranza, ovvero ammettere di non sapere, può aiutare in maniera diretta la professionalità?

Se non chiedi, non sai

Una persona – e quindi un professionista – che crede di sapere tutto ciò che c’è da sapere nel proprio campo, è una persona che difficilmente fa e si fa domande.

Fare una domanda vuol dire prima di tutto ammettere una lacuna nelle proprie conoscenze, condizione necessaria per fare nuove acquisizioni.

Ma le domande, allo stesso modo, sono il più importante strumento di sviluppo e miglioramento che abbiamo a disposizione.

Chiedere un’opinione è come aprire una finestra su una stanza, chiusa e buia, e lasciar entrare una boccata d’aria fresca e un raggio di sole.

Un piccolo atto di umiltà può così illuminarci un mondo sconosciuto fino a poco prima, fornirci un nuovo punto di vista su un vecchio problema.

Una tempesta di (nuove) idee

Essere convinti di avere la verità in tasca toglie spazio: è asfissiante per le idee di chi ti circonda, letale per la reciproca ispirazione e anestetizzante per la creatività del gruppo.

Il contrario dell’umiltà è l’autarchia: pensare di essere in grado di risolvere ogni problema per conto proprio, di avere nel proprio giardino tutti gli ingredienti per la ricetta perfetta.

L’umiltà di chiedere e di fare domande è un lubrificante per le idee, mette in circolo la conoscenza e valorizza l’eterogeneità di pensiero.

Lo sanno bene le aziende che fondano il loro processo creativo e decisionale sulla tecnica del brainstorming. Proposto per la prima volta nel 1957 da Alex Osborn, il brainstorming è un metodo che si basa sul presupposto che idea chiami idea e che, per una questione di probabilità, 5 persone che “producono” idee hanno più possibilità di trovare quella giusta.

 “Spesso le idee si accendono l’una con l’altra, come scintille elettriche.” 
Friedrich Engels

Al di là della statistica, stare seduti ad una democratica tavola rotonda fa bene allo spirito di gruppo e alle individualità, che si sentono considerate nel momento di prendere decisioni (soprattutto se questo riguardano il proprio lavoro).

Certo, non si può ricorrere al brainstorming per ogni singola decisione, ma quando si decide di farlo sarebbe bene rispettare alcune semplici regole:

  • tutte le opinioni hanno lo stesso peso, a prescindere dal ruolo
  • in un primo momento, non si scarta nessuna idea
  • non si giudicano le idee
  • bisogna esprimere la propria idea subito, di getto, prima che venga strozzata dalle inibizioni e dalle incertezze
  • in un secondo momento, si analizzano e filtrano le idee

Siamo realisti, esigiamo l’impossibile

Se dopo una vita dedicata alla conoscenza, Socrate ammise di non sapere, come possiamo noi anche solo pensare di possedere una comprensione totale di un argomento?

Produciamo e consumiamo così tante informazioni e novità che è impossibile ritenere di averne una cognizione completa e sempre aggiornata, anche se vi dedicassimo tutta la nostra giornata.

È molto più sensato e verosimile, ammettere che pur conoscendo bene un argomento, non siamo in grado di possedere tutta la comprensione a riguardo. Questo può succedere se siamo disposti al dialogo, magari con chi ne sa più di noi o con chi la pensa semplicemente in maniera differente.

 

 

Basterebbe, di tanto in tanto, aprire un’enciclopedia a caso per capire quant’è piccolo il nostro bagaglio di conoscenze rispetto alla stiva dello scibile umano.


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Il Valzer tra Musica e Creatività

Il Valzer tra Musica e Creatività

Chiunque si sia trovato a dover creare qualcosa, che fosse un testo, una presentazione o un progetto, avrà sicuramente capito che la creatività ha bisogno di un rito.

Ogni artista passato alla storia, ogni scrittore di successo ha le sue – più o meno sofisticate – abitudini, necessarie a favorire il processo creativo.

Il regista e sceneggiatore americano Woody Allen, una macchina creativa da più di 50 film, ha l’abitudine di cambiare stanza o luogo quando è in crisi creativa. Gli è sufficiente spostare la sua attenzione da un’attività ad un’altra qualsiasi, per poter creare la scintilla dell’inventiva.

Philip Roth, autore di Pastorale Americana, non comincia a scrivere se non dopo una sostanziosa colazione e della sana attività fisica. Un po’ più singolare l’abitudine di James Joyce: per favorire la vena produttiva, lo scrittore irlandese era solito scrivere sdraiato sul letto a pancia in giù.

Un altro elemento spesso presente nelle abitudini dei processi creativi – soprattutto di chi fa della parola un’arte – è la musica.

Musica classica, musica etnica, rock, jazz blues…

Non importa il genere, che sia moderna o meno, che sia strumentale o cantata. La musica, più di ogni altra cosa, è un ottimo alleato che accoglie e stimola le idee, la creatività e il genio.

 

Credits @wakeup-world.com

 

Il valzer di note e parole

Lo scrittore giapponese Haruki Murakami, famoso per opere come Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo, ha un rapporto molto particolare con la musica.

Titolare per alcuni anni di un jazz bar a Tokyo e possessore di migliaia dischi, Murakami impregna i suoi libri di musica ad ogni capitolo, citandola addirittura 91 volte nel suo Kafka sulla spiaggia.

Su Spotify è stata pubblicata anche una playlist, con più di 3000 brani che fanno parte della sua collezione personale e che accompagnano in sottofondo ogni battuta della sua scrittura.

Nel nostro paese, a vivere e alimentare un rapporto di reciproca ispirazione tra note e parole, è lo scrittore torinese Alessandro Baricco. L’autore di Castelli di Rabbia e Seta, ha perfino dedicato alla musica – e ad uno dei suoi più grandi maestri – il suo primo film da regista.

È del 2008 il film Lezione 21, scritto e diretto da Baricco, incentrato sulla Nona Sinfonia di Beethoven e sulla sua tumultuosa nascita.

Gli effetti della musica sul cervello

Di studi e trattati sugli effetti della musica sul nostro cervello, ce ne sono stati moltissimi.

In Canada è nato il BRAMS, International Laboratory for Brain, Music and Sound Research, che si occupa appunto di analizzare il modo in cui ritmo, armonia e melodia vengono percepiti dal nostro cervello e in che modo favoriscano alcune delle sue attività.

La musica è l’ingrediente che più di tutti smuove: smuove i corpi, il cervello e di conseguenza anche le idee.

 

Credits @simplymuzo.com

 

Il mio metodo

Nella creazione di un testo esistono diversi processi, ognuno dei quali è più o meno propenso a farsi stimolare e accompagnare dalla musica.

Quando scrivo un testo, divido il mio “viaggio creativo” in 4 tappe principali:

  • raccolta di informazioni sull’argomento
  • prima stesura “istintiva”
  • aggiustamenti e eliminazione del superfluo
  • controllo e correzione

La prima fase, la raccolta di informazioni sull’argomento, non richiede un grande sforzo cognitivo, ma tanto tempo e oculatezza nella scelta delle fonti.

Un lavoro quasi meccanico, che si lascia affiancare bene da una musica di sottofondo ritmata e cantata, magari rock, jazz o soul.

La seconda fase è più impulsiva e ritmica, quindi ho bisogno di un accompagnamento musicale che si faccia un po’ da parte per far fluire le idee senza ostacoli o troppe distrazioni.

Questo è il momento migliore per dei brani strumentali o dalle sonorità ambient, come quelle del gruppo islandese Sigur Ros. In questo step del processo creativo, anche la musica classica mi è d’aiuto, in particolar modo le opere di Bach e Beethoven.

La terza fase è la più delicata e in quanto tale richiede maggior concentrazione. In questo caso entra in gioco il suono più potente di tutti: il silenzio.

D’accordo, siamo soliti considerare il silenzio più che altro come assenza di suono e quindi di musica! Ma non era di questa idea il compositore John Cage, che nella sua famosa 4’33” riuscì a sottolineare come anche il silenzio potesse essere in realtà una forma di musica.

Il silenzio mi permette di far “posare” le idee e di isolarle da tutto il resto. Il taglio delle parti superflue di un testo non può che avvenire in parallelo all’esclusione degli stimoli sonori.

Torno poi alla musica con la 4 e ultima fase del processo creativo: il controllo del testo e le rifiniture. Eseguo questo step particolarmente tecnico facendomi ispirare nuovamente da qualcosa di ritmico, magari brani Reggae e Pop in acustico.

 

 

“L’inesprimibile profondità della musica, così semplice da comprendere e allo stesso tempo inspiegabile, è dovuta al fatto che essa riproduce tutte le emozioni più intime del nostro essere, ma in maniera completamente estranea alla nostra realtà e alla sua sofferenza… La musica esprime solo la quintessenza della vita e i suoi avvenimenti, mai gli avvenimenti stessi”
Oliver Sacks – Musicophilia

 

Questo è il mio metodo creativo e il suo contorno musicale.

Certo, per seguirlo alla lettera c’è bisogno delle giuste condizioni “ambientali”. Se si lavora in un open space o in un luogo pubblico, probabilmente si presenterà la necessità di una musica che prima di tutto copra i rumori estranei e indesiderati.

Ma questa, è tutta un’altra musica.

Alcune delle canzoni che mi hanno aiutato a scrivere questo post:

  • 1° fase: Karma Police – Radiohead / This Must Be The Place – Talking Heads
  • 2° fase: God Bless the Child – Sonny Rollins / Olsen Olsen – Sigur Ros
  • 3° fase: –
  • 4° fase: Keep Going – The Revivalists / With My Own Two Hands – Ben Harper

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F.O.M.O. : quanto è verde l’erba del vicino?

Con l’acronimo F.O.M.O. (Fear of Missing Out) si fa riferimento a una sensazione di ansia legata al timore di perdersi qualcosa di bello e importante.

La felicità è altrove e noi ce la stiamo perdendo.

Nell’era dei Social Media, questa paura diventa sempre più ordinaria e diffusa, a causa delle sbirciatine che queste piattaforme ci offrono sulla vita degli altri.

Fino a qualche anno fa, avremmo parlato di stalking o voyuerismo: un soggetto (lo spione-stalker) che di nascosto scruta una o più ignare vittime (gli spiati). Con Facebook et similia, non solo le vittime hanno perso la loro inconsapevolezza, ma sono diventate esse stesse animatrici e promotrici della sbirciatina, fornendo allo spione-stalker materiale sempre fresco e di qualità.

Le vite degli altri

Le foto delle vacanze, della romantica cena e della coppia affiatata, tutto viene pubblicato amplificandone oltremodo la qualità, come un qualsiasi brand che faccia comunicazione per il suo prodotto di punta.

I difetti scompaiono, le giornate sono sempre avvincenti e le vacanze sempre memorabili.  Gli attori sono sempre vestiti per la festa, circondati sempre di bella gente e frequentano sempre e solo i posti giusti.

Così, da qualche parte al di là della retina dello smartphone c’è qualcuno che, in preda alla F.O.M.O., matura la percezione che la vita altrui sia perfetta e che abbia un qualcosa in più.

La vita virtuale viene venduta agli altri, mostrata attraverso uno speciale “filtro magnificante”, che distorce la realtà e che rende la famosa erba del vicino più verde di quanto non sia.

La F.O.M.O., in effetti, affonda le sue radici su una percezione del tutto sbagliata e alterata: la rappresentazione digitale della vita degli altri è onesta e veritiera, gli altri sono sempre più felici di noi, fanno sempre più cose di noi, hanno una vita migliore.

Cosa facciamo per allentare lo stress della F.O.M.O.? Giochiamo allo stesso gioco!

Curiamo la nostra brand identity per far in modo che sia altrettanto cool, andando a fomentare il disagio di qualcun altro. Che a sua volta farà la stessa cosa, formando un ciclo infinito di F.O.M.O.

Stiamo partecipando alla propagazione di un virus percettivo.


Compulsione anti-noia

Deloitte, attraverso la Global Mobile Consumer Survey , ha calcolato che mediamente controlliamo il nostro smartphone 46 volte al giorno. Il 4% delle persone arriva fino a 200 volte.

Un comportamento compulsivo che sorge ogni qual volta ci sentiamo annoiati o vogliamo fuggire un pensiero che non ci conforta, immergendoci nella meravigliosa “vita altrove” di qualcun altro.

Il problema è che, avendo costantemente la spinta attaccata al nostro amato dispositivo, rischiamo di affaticare il nostro cervello oltremodo e di non lasciargli un attimo di riposo, magari nell’attesa che il semaforo diventi verde o che arrivi il nostro turno in posta.

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lingvistov.com

La noia, grande alleata della creatività e del genio, viene così sostituita da una dose di distrazione, molto spesso inutile e superficiale.

La prima soluzione che viene in mente, per allentare la presa della F.O.M.O. su di noi, è ovviamente controllare di meno gli smartphone e i Social durante il giorno.

Un secondo accorgimento, semplice quanto efficace, è quello di smettere di dedicare la nostra attenzione a ciò che fanno e vivono gli altri. Concentrarsi su quel che stiamo facendo, o abbandonarci qualche minuto di sana noia.

Keep it real

Keep it real è un modo di dire che appartiene allo slang americano. Letteralmente significa “attieniti alla realtà”, un’esortazione a non cambiare il proprio modo di essere e di comportarsi in base, ad esempio, alle tendenze e alle influenze della società.

Smettiamola di comparare la nostra vita reale alla vita virtuale degli altri.

Il paragone è sempre e comunque ingiusto e non equo, e questo vale per tutto: vi è mai capitato di cercare casa, trovarne una fantastica sul sito web dell’agenzia immobiliare, per poi scoprire che è una catapecchia virtualmente abbellita da un venditore un po’ troppo furbetto?

Concentriamoci piuttosto su ciò che di vero e buono c’è nella nostra vita e ciò che vi gira intorno.

Ricordiamoci che dall’altra parte dello schermo, c’è un’altra persona come noi, con le nostre stesse paure e la stessa ansia di perdersi qualcosa convinta che la felicità sia altrove.

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