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Perché l’Umiltà Migliora la Professionalità?

Perché l’Umiltà Migliora la Professionalità?

La lingua italiana è meravigliosa, sia per la “cantabilità” delle sue parole che per la complessità di alcuni suoi aspetti.

Esistono infatti alcune parole o concetti che richiedono uno sforzo cognitivo davvero notevole per essere pronunciati.

Se penso alle cose più difficili che si possano dire nella lingua italiana, mi vengono subito in mente queste tre:

  • 1. Acido desossiribonucleico
  • 2. Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa
  • 3. Non lo so

Mentre i primi due punti sono degli scioglilingua, che mettono a dura prova le nostre capacità linguistiche e di dizione, il terzo punto è di una complessità totalmente astratta, che ha a che fare con la testa più che con la lingua.

L’incapacità nell’ammettere di non sapere è un limite dell’uomo – di radici antichissime – che Socrate acquisì solo negli ultimi momenti della sua esistenza.

Ma perché la dotta ignoranza, ovvero ammettere di non sapere, può aiutare in maniera diretta la professionalità?

Se non chiedi, non sai

Una persona – e quindi un professionista – che crede di sapere tutto ciò che c’è da sapere nel proprio campo, è una persona che difficilmente fa e si fa domande.

Fare una domanda vuol dire prima di tutto ammettere una lacuna nelle proprie conoscenze, condizione necessaria per fare nuove acquisizioni.

Ma le domande, allo stesso modo, sono il più importante strumento di sviluppo e miglioramento che abbiamo a disposizione.

Chiedere un’opinione è come aprire una finestra su una stanza, chiusa e buia, e lasciar entrare una boccata d’aria fresca e un raggio di sole.

Un piccolo atto di umiltà può così illuminarci un mondo sconosciuto fino a poco prima, fornirci un nuovo punto di vista su un vecchio problema.

Una tempesta di (nuove) idee

Essere convinti di avere la verità in tasca toglie spazio: è asfissiante per le idee di chi ti circonda, letale per la reciproca ispirazione e anestetizzante per la creatività del gruppo.

Il contrario dell’umiltà è l’autarchia: pensare di essere in grado di risolvere ogni problema per conto proprio, di avere nel proprio giardino tutti gli ingredienti per la ricetta perfetta.

L’umiltà di chiedere e di fare domande è un lubrificante per le idee, mette in circolo la conoscenza e valorizza l’eterogeneità di pensiero.

Lo sanno bene le aziende che fondano il loro processo creativo e decisionale sulla tecnica del brainstorming. Proposto per la prima volta nel 1957 da Alex Osborn, il brainstorming è un metodo che si basa sul presupposto che idea chiami idea e che, per una questione di probabilità, 5 persone che “producono” idee hanno più possibilità di trovare quella giusta.

 “Spesso le idee si accendono l’una con l’altra, come scintille elettriche.” 
Friedrich Engels

Al di là della statistica, stare seduti ad una democratica tavola rotonda fa bene allo spirito di gruppo e alle individualità, che si sentono considerate nel momento di prendere decisioni (soprattutto se questo riguardano il proprio lavoro).

Certo, non si può ricorrere al brainstorming per ogni singola decisione, ma quando si decide di farlo sarebbe bene rispettare alcune semplici regole:

  • tutte le opinioni hanno lo stesso peso, a prescindere dal ruolo
  • in un primo momento, non si scarta nessuna idea
  • non si giudicano le idee
  • bisogna esprimere la propria idea subito, di getto, prima che venga strozzata dalle inibizioni e dalle incertezze
  • in un secondo momento, si analizzano e filtrano le idee

Siamo realisti, esigiamo l’impossibile

Se dopo una vita dedicata alla conoscenza, Socrate ammise di non sapere, come possiamo noi anche solo pensare di possedere una comprensione totale di un argomento?

Produciamo e consumiamo così tante informazioni e novità che è impossibile ritenere di averne una cognizione completa e sempre aggiornata, anche se vi dedicassimo tutta la nostra giornata.

È molto più sensato e verosimile, ammettere che pur conoscendo bene un argomento, non siamo in grado di possedere tutta la comprensione a riguardo. Questo può succedere se siamo disposti al dialogo, magari con chi ne sa più di noi o con chi la pensa semplicemente in maniera differente.

 

 

Basterebbe, di tanto in tanto, aprire un’enciclopedia a caso per capire quant’è piccolo il nostro bagaglio di conoscenze rispetto alla stiva dello scibile umano.


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Il Valzer tra Musica e Creatività

Il Valzer tra Musica e Creatività

Chiunque si sia trovato a dover creare qualcosa, che fosse un testo, una presentazione o un progetto, avrà sicuramente capito che la creatività ha bisogno di un rito.

Ogni artista passato alla storia, ogni scrittore di successo ha le sue – più o meno sofisticate – abitudini, necessarie a favorire il processo creativo.

Il regista e sceneggiatore americano Woody Allen, una macchina creativa da più di 50 film, ha l’abitudine di cambiare stanza o luogo quando è in crisi creativa. Gli è sufficiente spostare la sua attenzione da un’attività ad un’altra qualsiasi, per poter creare la scintilla dell’inventiva.

Philip Roth, autore di Pastorale Americana, non comincia a scrivere se non dopo una sostanziosa colazione e della sana attività fisica. Un po’ più singolare l’abitudine di James Joyce: per favorire la vena produttiva, lo scrittore irlandese era solito scrivere sdraiato sul letto a pancia in giù.

Un altro elemento spesso presente nelle abitudini dei processi creativi – soprattutto di chi fa della parola un’arte – è la musica.

Musica classica, musica etnica, rock, jazz blues…

Non importa il genere, che sia moderna o meno, che sia strumentale o cantata. La musica, più di ogni altra cosa, è un ottimo alleato che accoglie e stimola le idee, la creatività e il genio.

 

Credits @wakeup-world.com

 

Il valzer di note e parole

Lo scrittore giapponese Haruki Murakami, famoso per opere come Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo, ha un rapporto molto particolare con la musica.

Titolare per alcuni anni di un jazz bar a Tokyo e possessore di migliaia dischi, Murakami impregna i suoi libri di musica ad ogni capitolo, citandola addirittura 91 volte nel suo Kafka sulla spiaggia.

Su Spotify è stata pubblicata anche una playlist, con più di 3000 brani che fanno parte della sua collezione personale e che accompagnano in sottofondo ogni battuta della sua scrittura.

Nel nostro paese, a vivere e alimentare un rapporto di reciproca ispirazione tra note e parole, è lo scrittore torinese Alessandro Baricco. L’autore di Castelli di Rabbia e Seta, ha perfino dedicato alla musica – e ad uno dei suoi più grandi maestri – il suo primo film da regista.

È del 2008 il film Lezione 21, scritto e diretto da Baricco, incentrato sulla Nona Sinfonia di Beethoven e sulla sua tumultuosa nascita.

Gli effetti della musica sul cervello

Di studi e trattati sugli effetti della musica sul nostro cervello, ce ne sono stati moltissimi.

In Canada è nato il BRAMS, International Laboratory for Brain, Music and Sound Research, che si occupa appunto di analizzare il modo in cui ritmo, armonia e melodia vengono percepiti dal nostro cervello e in che modo favoriscano alcune delle sue attività.

La musica è l’ingrediente che più di tutti smuove: smuove i corpi, il cervello e di conseguenza anche le idee.

 

Credits @simplymuzo.com

 

Il mio metodo

Nella creazione di un testo esistono diversi processi, ognuno dei quali è più o meno propenso a farsi stimolare e accompagnare dalla musica.

Quando scrivo un testo, divido il mio “viaggio creativo” in 4 tappe principali:

  • raccolta di informazioni sull’argomento
  • prima stesura “istintiva”
  • aggiustamenti e eliminazione del superfluo
  • controllo e correzione

La prima fase, la raccolta di informazioni sull’argomento, non richiede un grande sforzo cognitivo, ma tanto tempo e oculatezza nella scelta delle fonti.

Un lavoro quasi meccanico, che si lascia affiancare bene da una musica di sottofondo ritmata e cantata, magari rock, jazz o soul.

La seconda fase è più impulsiva e ritmica, quindi ho bisogno di un accompagnamento musicale che si faccia un po’ da parte per far fluire le idee senza ostacoli o troppe distrazioni.

Questo è il momento migliore per dei brani strumentali o dalle sonorità ambient, come quelle del gruppo islandese Sigur Ros. In questo step del processo creativo, anche la musica classica mi è d’aiuto, in particolar modo le opere di Bach e Beethoven.

La terza fase è la più delicata e in quanto tale richiede maggior concentrazione. In questo caso entra in gioco il suono più potente di tutti: il silenzio.

D’accordo, siamo soliti considerare il silenzio più che altro come assenza di suono e quindi di musica! Ma non era di questa idea il compositore John Cage, che nella sua famosa 4’33” riuscì a sottolineare come anche il silenzio potesse essere in realtà una forma di musica.

Il silenzio mi permette di far “posare” le idee e di isolarle da tutto il resto. Il taglio delle parti superflue di un testo non può che avvenire in parallelo all’esclusione degli stimoli sonori.

Torno poi alla musica con la 4 e ultima fase del processo creativo: il controllo del testo e le rifiniture. Eseguo questo step particolarmente tecnico facendomi ispirare nuovamente da qualcosa di ritmico, magari brani Reggae e Pop in acustico.

 

 

“L’inesprimibile profondità della musica, così semplice da comprendere e allo stesso tempo inspiegabile, è dovuta al fatto che essa riproduce tutte le emozioni più intime del nostro essere, ma in maniera completamente estranea alla nostra realtà e alla sua sofferenza… La musica esprime solo la quintessenza della vita e i suoi avvenimenti, mai gli avvenimenti stessi”
Oliver Sacks – Musicophilia

 

Questo è il mio metodo creativo e il suo contorno musicale.

Certo, per seguirlo alla lettera c’è bisogno delle giuste condizioni “ambientali”. Se si lavora in un open space o in un luogo pubblico, probabilmente si presenterà la necessità di una musica che prima di tutto copra i rumori estranei e indesiderati.

Ma questa, è tutta un’altra musica.

Alcune delle canzoni che mi hanno aiutato a scrivere questo post:

  • 1° fase: Karma Police – Radiohead / This Must Be The Place – Talking Heads
  • 2° fase: God Bless the Child – Sonny Rollins / Olsen Olsen – Sigur Ros
  • 3° fase: –
  • 4° fase: Keep Going – The Revivalists / With My Own Two Hands – Ben Harper

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Come scrivere la pagina “About”

Come scrivere la pagina “About”

Partiamo da un presupposto tanto importante quanto sottovalutato: la pagina Chi siamo (o About us), è la sezione del tuo sito che viene visitata di più, seconda solo alla Homepage.

Allo stesso tempo, purtroppo, tale pagina è anche quella con il più alto tasso di “fughe premature” da parte degli utenti. Cosa vuol dire questo?

Vuol dire che chi si trova sul tuo sito, magari atterrando sulla Home, ci tiene a conoscere il volto e la storia di chi è dietro al sito stesso, o all’azienda all’interno descritta.

Vuol dire che, prima di decidere se entrare o meno in contatto con te, il visitatore vuole avere maggiori informazioni sul tuo progetto e sul tuo modo di fare le cose.

Un aspetto da non sottovalutare, in un periodo storico di spioni digitali, durante il quale prima di entrare in contatto con chicchessia, preferiamo fare una capatina sul profilo social e farci un’idea preliminare.

Ma perché così tanti utenti scappano a gambe levate dalle pagine Chi siamo?

La risposta è piuttosto semplice: mettiti nei panni di un utente che è in cerca, per esempio, di un qualsiasi prodotto o servizio. Dopo dozzine di pagine Chi siamo tutte uguali, anonime e noiose, si ritrova frastornato e sbadigliante di fronte alle solite quattro definizioni striminzite.

 

“Siamo leader del settore, abbiamo un know-how collaudato, siamo affidabili e flessibili.”

 

Nessuno vuole mettere in dubbio che l’azienda che si descrive in questo modo abbia realmente queste caratteristiche. Non stiamo parlando di contenuto, ma di forma.

Descrizioni pompose ed auto-celebrative hanno due difetti principali:

 

  • Sono poco interessanti, se non addirittura soporifere
  • Causano nel lettore una sorta di diffidenza istintiva. Pensa se, nel conoscere una persona nuova, questa si presentasse elogiando le proprie presunte virtù e competenze.

 

A nessuno piace chi tira l’acqua al proprio mulino.

Il risultato? Nel giro di due secondi perderai un visitatore e un potenziale cliente.

Come fare a raccontare te e il tuo progetto, in modo da catturare l’attenzione del tuo visitatore e magari incuriosirlo?

Parliamo di alcuni degli aspetti che prendo in considerazione nel momento in cui scrivo una pagina Chi siamo:

Il pubblico

Come per tutte le forme di comunicazione, il target di riferimento è uno degli aspetti più importanti di cui tener conto. Sono attento a scrivere la descrizione dell’azienda, del professionista o del progetto in un linguaggio coerente con i futuri lettori.

La storia

Per raccontare la propria storia (fare il cosiddetto storytelling) non bisogna essere un grande brand, famoso e con milioni di fatturato.

Ognuno di noi ha una storia che merita di essere raccontata, un percorso e delle origini che ci rendono unici. Il mio lavoro è quello di raccontare la tua storia, in modo da dare rilievo alle caratteristiche che ti rendono umano e ti avvicinano al tuo pubblico.

La verve

Come detto prima, la maggior parte delle persone che arriva sulla pagina Chi siamo lo fa perché vuole sapere qualcosa di più sulle tue idee e la tua storia.

Ciò non toglie che anche il lettore più coraggioso e tenace può vacillare, messo davanti ad un blocco di parole e una sequenza di date astratte.

Ad esempio:

NO – L’azienda è stata fondata nel XXXX, nel XXXX abbiamo acquistato nuovi macchinari, nel XXXX ci siamo trasferiti a…

SI – Siamo nati nel XXXX come un piccolo gruppo di affiatati collaboratori e oggi, nonostante i numeri siano cresciuti, rimaniamo fedeli ai valori che ci hanno portato fino a qui…

In conclusione, la presentazione deve essere il più possibile simile a quella tra due persone che si incontrano e si raccontano, priva di termini impersonali e di concetti autoreferenziali.

 

Una comunicazione tra persone, non tra aziende.

 

Un’ occasione per parlare direttamente alla pancia dei tuoi potenziali clienti e magari, perché no, guadagnare la loro fiducia.

Ecco alcuni esempi di presentazioni davvero originali ed interessanti:

Google – La società
Altervista – Chi siamo
Nielsen Norman Group – History

Questa è la mia pagina about.

Per maggiori dettagli su come scrivere una pagina “About” che susciti interesse, parliamone!


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La lentezza (è mezza bellezza)

Uno dei leitmotiv e delle parole più calzanti per definire la nostra società e il nostro stile di vita, è senz’altro “velocità”.

I nostri mezzi di trasporto si fanno sempre più veloci, gli strumenti di comunicazione si fanno sempre più veloci e persino il nostro cibo diventa sempre più fast.

Questa crescente ricerca della velocità, crea un solco profondissimo non solo tra le nostre abitudini passate e quelle presenti, ma soprattutto una discontinuità sostanziale riguardo al nostro modo di pensare e di intendere le cose nel corso dei decenni.

 

Più veloci della luce

D’altronde, è impossibile credere che un uomo abituato a viaggi lunghi mesi, abbia le stesse modalità di pensiero di un uomo che impiega 4 ore per compiere la tratta Pechino-Shangai.

Questo si ripercuote pesantemente sulla nostra capacità – o meglio incapacità – di attendere: se un tempo eravamo abituati ad aspettare 30 secondi perché il nostro amato 56k caricasse la foto di un gattino, adesso storciamo il naso se la nostra odiata ADSL ci mette più di mezzo secondo.

Imponiamo a noi stessi la velocità, in tutti gli aspetti della nostra vita: i frutti devono maturare velocemente e a prescindere dalle stagioni, quel progetto va concluso entro la settimana a prescindere dalla sua qualità, quel vecchietto in auto che va a due chilometri orari deve togliersi dalla strada perché ci rallenta.

Siamo abituati a vedere la lentezza come una forma di deficit, un ostacolo che si piazza tra noi e i nostri obiettivi da raggiungere nel minor tempo possibile. Essere lenti significa dubitare, non esser sicuri di sé e lasciar spazio all’incertezza che nasce dalla riflessione.

 

“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge.
Allora, istintivamente, rallenta il passo.
Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.
Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.”
Milan Kundera – La lentezza


Il cervello-lento

Nonostante ciò che siamo abituati a credere, il nostro cervello è tutto fuorché una macchina veloce.

Uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Accademy of Science (Pnas) e condotto a più mani (tra cui quelle del Dottor Roberto Caminiti, del dipartimento di Fisiologia e Farmacologia, della Sapienza di Roma) ha dimostrato che il cervello più lento è quello più evoluto.

Monitorando le differenze di funzionamento tra cervelli di macaco, scimpanzé e uomo, è stato rilevato che durante l’evoluzione da scimmia a Uomo moderno, ha prevalso “un meccanismo basato sul trasferimento lento dei segnali nervosi, piuttosto che sulla massima velocità possibile”.

A dispetto di ciò che si pensa, il cervello è un congegno molto più lento rispetto alle altre macchine da lui progettate, e fatica perciò a stargli dietro.

È della stessa opinione il Dottor Lamberto Maffei, già direttore dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazione delle Ricerche, che nel 2014 ha pubblicato il suo Elogio della Lentezza nel quale ci invita a riscoprire “i vantaggi di una civiltà dedita alla riflessività e al pensiero lento”.

La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo.
Milan Kundera – La Lentezza


La rivoluzione della lentezza

In un mondo frenetico e iper-veloce, la scelta della lentezza è un atto rivoluzionario, un’arma di resistenza e un ansiolitico naturale.

Se n’è accorto il mondo della ristorazione, provando a rilanciare una cucina all’insegna dello slow food, se ne sono accorte migliaia di persone che scelgono di passare il proprio tempo libero in campagna e in montagna, per ritrovare il silenzio, la natura e tutta la sua lentezza.

Se ne sono accorti i nuovi accoliti delle filosofie orientali, del buddismo e dello yoga. La meditazione non è altro che un esercizio di immobilità per il corpo e di lentezza per la mente. Dove lentezza non è “arrivare dopo sulle cose”, ma arrivare nel modo giusto, col giusto percorso e col proprio ritmo.

Viaggiare a piedi, divenuto ormai più un hobby che una necessità, ci dà modo di riscoprire la fatica degli spostamenti e una lentezza antica.

Una lentezza che ha a che fare con lo spazio e il tempo, che i nostri nonni contadini conoscevano bene. Un retaggio del passato che riusciamo a cancellare in mille modi, spaventati da ciò che potrebbe accadere se ci fermassimo per un attimo.

Qualcuno ha detto che “è il viaggio che conta, non la destinazione”. Forse intendeva proprio questo: la velocità è oblio e distrazione, è passare sopra e attraverso le cose senza fatica e senza memoria.

La lentezza è l’unica strada possibile per imparare a “sentire il viaggio”, immergersi nelle cose e lasciare che ci tocchino.

Quella eccitantissima perversione di vita: la necessità di compiere qualcosa in un tempo minore di quanto in realtà ne occorrerebbe.
Ernest Hemingway, parlando della fretta


Solo gli stupidi si muovono veloci

Non pensiamo alla lentezza come a un ostacolo ai nostri obiettivi, dovremmo piuttosto intenderla come il modo più preciso e corretto di fare le cose.

“Roma non fu costruita in un giorno” così come un diamante non nasce in una notte. Le cose di maggior valore (idee, relazioni, lavori) hanno bisogno di tempo e dedizione.

Prendiamoci il tempo per fare le cose come si deve, col tempo che ci vuole e l’attenzione necessaria.

Lasciamo la velocità – e l’oblio – a chi vuole tutto e subito, perché molto spesso il “tutto” vuol dir niente e il “subito” è nemico del buono.

 

 

 

 

 

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F.O.M.O. : quanto è verde l’erba del vicino?

Con l’acronimo F.O.M.O. (Fear of Missing Out) si fa riferimento a una sensazione di ansia legata al timore di perdersi qualcosa di bello e importante.

La felicità è altrove e noi ce la stiamo perdendo.

Nell’era dei Social Media, questa paura diventa sempre più ordinaria e diffusa, a causa delle sbirciatine che queste piattaforme ci offrono sulla vita degli altri.

Fino a qualche anno fa, avremmo parlato di stalking o voyuerismo: un soggetto (lo spione-stalker) che di nascosto scruta una o più ignare vittime (gli spiati). Con Facebook et similia, non solo le vittime hanno perso la loro inconsapevolezza, ma sono diventate esse stesse animatrici e promotrici della sbirciatina, fornendo allo spione-stalker materiale sempre fresco e di qualità.

Le vite degli altri

Le foto delle vacanze, della romantica cena e della coppia affiatata, tutto viene pubblicato amplificandone oltremodo la qualità, come un qualsiasi brand che faccia comunicazione per il suo prodotto di punta.

I difetti scompaiono, le giornate sono sempre avvincenti e le vacanze sempre memorabili.  Gli attori sono sempre vestiti per la festa, circondati sempre di bella gente e frequentano sempre e solo i posti giusti.

Così, da qualche parte al di là della retina dello smartphone c’è qualcuno che, in preda alla F.O.M.O., matura la percezione che la vita altrui sia perfetta e che abbia un qualcosa in più.

La vita virtuale viene venduta agli altri, mostrata attraverso uno speciale “filtro magnificante”, che distorce la realtà e che rende la famosa erba del vicino più verde di quanto non sia.

La F.O.M.O., in effetti, affonda le sue radici su una percezione del tutto sbagliata e alterata: la rappresentazione digitale della vita degli altri è onesta e veritiera, gli altri sono sempre più felici di noi, fanno sempre più cose di noi, hanno una vita migliore.

Cosa facciamo per allentare lo stress della F.O.M.O.? Giochiamo allo stesso gioco!

Curiamo la nostra brand identity per far in modo che sia altrettanto cool, andando a fomentare il disagio di qualcun altro. Che a sua volta farà la stessa cosa, formando un ciclo infinito di F.O.M.O.

Stiamo partecipando alla propagazione di un virus percettivo.


Compulsione anti-noia

Deloitte, attraverso la Global Mobile Consumer Survey , ha calcolato che mediamente controlliamo il nostro smartphone 46 volte al giorno. Il 4% delle persone arriva fino a 200 volte.

Un comportamento compulsivo che sorge ogni qual volta ci sentiamo annoiati o vogliamo fuggire un pensiero che non ci conforta, immergendoci nella meravigliosa “vita altrove” di qualcun altro.

Il problema è che, avendo costantemente la spinta attaccata al nostro amato dispositivo, rischiamo di affaticare il nostro cervello oltremodo e di non lasciargli un attimo di riposo, magari nell’attesa che il semaforo diventi verde o che arrivi il nostro turno in posta.

social-media-smartphone-addicted

lingvistov.com

La noia, grande alleata della creatività e del genio, viene così sostituita da una dose di distrazione, molto spesso inutile e superficiale.

La prima soluzione che viene in mente, per allentare la presa della F.O.M.O. su di noi, è ovviamente controllare di meno gli smartphone e i Social durante il giorno.

Un secondo accorgimento, semplice quanto efficace, è quello di smettere di dedicare la nostra attenzione a ciò che fanno e vivono gli altri. Concentrarsi su quel che stiamo facendo, o abbandonarci qualche minuto di sana noia.

Keep it real

Keep it real è un modo di dire che appartiene allo slang americano. Letteralmente significa “attieniti alla realtà”, un’esortazione a non cambiare il proprio modo di essere e di comportarsi in base, ad esempio, alle tendenze e alle influenze della società.

Smettiamola di comparare la nostra vita reale alla vita virtuale degli altri.

Il paragone è sempre e comunque ingiusto e non equo, e questo vale per tutto: vi è mai capitato di cercare casa, trovarne una fantastica sul sito web dell’agenzia immobiliare, per poi scoprire che è una catapecchia virtualmente abbellita da un venditore un po’ troppo furbetto?

Concentriamoci piuttosto su ciò che di vero e buono c’è nella nostra vita e ciò che vi gira intorno.

Ricordiamoci che dall’altra parte dello schermo, c’è un’altra persona come noi, con le nostre stesse paure e la stessa ansia di perdersi qualcosa convinta che la felicità sia altrove.

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L’insostenibile leggerezza della stupidità

Perché gli stupidi sono più felici?

Si sente spesso la frase fatta “gli stupidi sono più felici”. La si sente così tante volte, da così tante persone così diverse tra loro, così diametralmente opposte ma allo stesso tempo unite da questa legge senza tempo: chi è più stupido è più felice, o quantomeno così sembra, ostentando una invidiabile spensieratezza.

Ma allora, se la pensano proprio tutti così, sarà mica vero? Esisterà un qualche oscuro paradigma, un’ignota e misteriosa legge naturale che chi meno sa e meglio sta?

Partiamo dal nostro cervello, tanto ha tutto origine da lì, in un modo o nell’altro!

Partiamo dal presupposto che l’essere umano è un animale pigro, e in quanto tale cerca in tutti i modi di evitarsi lavoro inutile o quantomeno…evitabile.


Il pilota automatico

Basti pensare alla quantità di scelte, dalle più piccole alle più serie, che siamo invitati o costretti a prendere ogni giorno: Coca o Pepsi? Shampoo al mirtillo o all’Argan? Maglia rossa o maglia gialla?

Dozzine e dozzine di scelte inutili (o quasi) che succhiano via energia e concentrazione al nostro cervello.

Ecco che il nostro meraviglioso elaboratore naturale si trova a riciclare tutte le nozioni assunte in passato: ricorda che il fuoco brucia, non c’è bisogno di mettere in discussione ogni volta la sua pericolosità mettendoci una mano sopra.

È ormai famosa la decisione di alcuni uomini di successo di rinunciare alla giornaliera scelta d’abito e salvarsi dalla relativa decision fatigue.

Steve Jobs e Mark Zuckerberg hanno fatto scorta di una serie di vestiti tutti identici tra loro, per evitare di sprecare tempo ed energie ogni giorno davanti allo specchio, cercando di scegliere quale t-shirt si abbini meglio con le sneaker e i jeans.

Esagerazioni new age a parte, la necessità di “alleggerire” la mole di lavoro del nostro cervello è sempre più solida nella nostra società.


Il risparmio energetico

Come ci aiuta questo a capire il legame tra stupidità e spensieratezza?

Sorella dell’ignoranza, dalla quale si discosta però in maniera netta, la definizione di stupidità è piuttosto ampia e non del tutto chiara, e tocca argomenti come l’istintività e l’incapacità di fare o pensare in maniera costruttiva.

Se si dovesse dare una definizione alla stupidità, la si potrebbe descrivere come la cieca assenza di pensiero critico.

Insomma, chi è stupido è sicuro e non mette in discussione nulla, si nutre di pensiero daltonico e quindi di pregiudizi. Il suo atteggiamento è come quello dei cavalli, che bardati dei paraocchi, non vedono altro che la strada che qualcun altro ha deciso per loro.

Questo li rende chiusi mentalmente, ottusi, resistenti ai cambiamenti. Allo stesso tempo, questa incapacità (o non volontà) di recepire nuovi stimoli, permette allo stupido di risparmiare parecchie energie cerebrali.

Non scende nel profondo degli argomenti, lo stupido, non rimugina e non si scervella per trovare il bandolo della matassa di qualche grattacapo.

Funzionando con una sorta di “risparmio energetico”, è in grado di fare scorta di energie mentali. Ecco il motivo per il quale lo stupido sembra essere sempre più spensierato, certo delle sue convinzioni e sicuro di sé.

“La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda.”
Milan Kundera

William Girometti "La stupidità, un male inguaribile", 1973

William Girometti “La stupidità, un male inguaribile”, 1973

Il veleno e l’antidoto

Il pericolo numero uno, in una società sempre connessa attraverso internet e i Social, è l’amplificazione di questo “veleno”.

Lo stupido, in quanto tale, non cerca sul web l’antidoto e la terapia al suo problema, non cerca una via di fuga dal suo pensiero in bianco e nero.

Piuttosto preferisce crearsi un suo ecosistema artificiale, una cassa di risonanza della sua stupidità, continuando a comunicare e a recepire informazioni solo con e dalle persone con lo stesso modus pensandi.

Le cerchie di Google+, gli algoritmi di Facebook e Google ci spingono a fruire solo ed esclusivamente di contenuti che sono in linea con il nostro modo di pensare e il nostro punto di vista.

Il crepuscolo del pensiero critico passa attraverso le bacheche dei nostri Social, silenzioso e inosservato, penetrando la nostra quotidianità un post alla volta.

“Abbiamo tutti una tendenza inconsapevole ad allontanare dalla nostra mente ciò che si prepara a contraddirla, in politica come in filosofia. Avremo un’attenzione selettiva verso ciò che favorisce le nostre idee e una disattenzione selettiva verso ciò che le sfavorisce.”
Edgar Morin

Esiste un antidoto?

Basterebbe sforzarsi di capire e cogliere l’attimo in cui il nostro cervello mette il pilota automatico per risparmiare energie. Sforzarci di prendere delle decisioni e farci delle idee in base a ragionamenti sempre nuovi e influenzati da informazioni sempre aggiornate.

Scavare la superficie delle cose per scoprirne la vera essenza, al di là della nebbia dei pregiudizi facili e meccanici, funzionando sempre meno da automi e sempre più da essere umani pensanti e critici.

Magari, il significato più profondo del famoso “Think Different”, non è un invito a pensare differentemente dalla massa, ma a pensare differentemente da se stessi.

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Sindrome di Stendhal: la bellezza sconvolgerà il mondo

Il principe Miškin, personaggio de “L’Idiota” di Dostoevskij, pronuncia poche parole destinare ad imprimersi nell’immaginario mondiale e attraversare i secoli con un’immutata validità:

la bellezza salverà il mondo

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Che cosa sia la bellezza, quale sia la sua precisa definizione e la sua più profonda natura, è oggetto di infinte discussioni e tanta confusione (bellezza soggettiva o bellezza oggettiva?).

Il dizionario Treccani fa un’interessante precisazione, dicendo che la bellezza è “qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima”. Nel processo di “fruizione” della bellezza, esistono infatti tre componenti ben distinte, che potremmo dividere in:

Strumenti, che sono i nostri cinque sensi, ossia i mezzi con i quali la percepiamo. Con gli occhi vediamo un quadro, con le orecchie ascoltiamo una canzone, con la bocca assaggiamo un sapore, con il tatto accarezziamo una superficie e con il naso catturiamo un profumo;

Parametri, con i quali la valutiamo e la incastoniamo in una determinata categoria. I parametri sono fortemente influenzati dal periodo storico e dall’ambiente che ci circonda, nel momento in cui ci troviamo di fronte alla bellezza. Ecco perché, per chi è fortemente legato ai parametri di valutazione e della moda del tempo in cui vive, è complicato godere di una bellezza che ha origine in un lontano passato o che immagina un intangibile futuro;

Sensazioni, con le quali la “sentiamo” la bellezza e dalle quali ci facciamo rapire. Queste sensazioni nulla hanno a che vedere con forme, regole o mode, ma trovano rispecchiamento nell’identità più intima di ognuno di noi.

La bellezza, figlia della natura e dell’arte, sa assumere un miriade di forme diverse, alcune delle quali impetuose e travolgenti per l’animo umano più sensibile.

Amore e Psiche - Antonio Canova - Museo del Louvre

Amore e Psiche – Antonio Canova – Museo del Louvre

Stendhal e gli studi sulla sindrome

Una tradizione in voga nell’Europa continentale del XVII, voleva che i giovani aristocratici intraprendessero un viaggio – della durata di mesi o addirittura anni – all’interno del continente europeo, con l’obiettivo di accrescere conoscenze ed esperienze di vita.

Spesso questo viaggio, detto Gran Tour, aveva come destinazione finale l’Italia. Ecco perché, nel 1817, lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal, si trovò a scrivere delle bellezze della nostra penisola nel suo “Roma, Napoli, Firenze”.


“Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere”

Ecco la prima testimonianza di quella che è attualmente conosciuta proprio col nome di Sindrome di Stendhal: uno stato di turbamento e di malessere, causato dal trovarsi al cospetto di un’opera d’arte di bellezza sconvolgente e pietrificante.

A coniare questa definizione però, più di un secolo e mezzo dopo, sarà la psicanalista fiorentina Graziella Margherini, decisa ad approfondire questo argomento e trovarne una conferma scientifica, affascinata dagli scritti di Stendhal e da alcuni curiosi avvenimenti a cui aveva assistito.

Intorno agli anni ’80, Margherini era infatti psichiatra responsabile del Servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze:

“fui molto colpita, insieme ad altri miei colleghi, dal fenomeno ripetuto di arrivi d’urgenza di persone colpite da disturbi psichici improvvisi (…) erano tutte persone in viaggio, tutte straniere e tutte partite da casa in uno stato di benessere o di compenso psichico. Il fenomeno ci pareva assolutamente degno di approfondimento, così vi abbiamo dedicato uno studio decennale, operando anche un’indagine su un campione di controllo.”

Proprio come Stendhal, queste persone provano una sensazione di estasi mistica, un annichilimento di fronte a una dose di bellezza troppo potente e ingestibile. Lo studio della dottoressa Margherini ha inoltre evidenziato che la maggior parte dei malati di bellezza è costituita da viaggiatori singoli, individui da una cultura medio-alta che si trovano in cammino per studiare e godere delle bellezze artistiche del nostro paese.

La storia è piena di artisti folli che hanno trovato una cura attraverso l’arte, ma è tuttavia possibile impazzire a causa di quella stessa medicina? Cosa prova chi, ascoltando Mozart o ammirando una scultura del Bernini, è vittima di questa vertigine magica?

Malati di bellezza

Prendendo spunto dallo studio decennale del team di Firenze, si può accennare ai sintomi di quella che a tutti gli effetti non è una patologia, ma piuttosto un disturbo psicosomatico. Esso attecchisce solo a determinati tipi di personalità – particolarmente sensibili all’arte e alla bellezza – e in specifici ambienti in cui queste sono immerse, come luoghi ricchi di stimoli o di opere d’arte.

I sintomi, che hanno carattere temporaneo e svaniscono una volta abbandonati i suddetti luoghi, comprendono crisi di panico, ansia, palpitazioni e un vago senso di irrealtà. Solo in casi più gravi, la Sindrome di Stendhal ha generato crisi di pianto, angoscia e depressione.

Qualcosa di analogo, ma che assume spesso connotati più negativi, è rappresentato dalla Sindrome di Parigi, che colpisce quasi esclusivamente i turisti giapponesi in visita alla capitale francese. I sintomi, simili a quelli della sindrome di Stendhal, nascono però dalla delusione dei nipponici nel percepire una profonda differenza tra l’immagine che si ha della città europea in Giappone e la realtà dei fatti.

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L’esperimento

Ad approfondire l’argomento e cercare di capire se la Sindrome di Stendhal abbia dei fondamenti scientifici e non sia solo un’intrigante leggenda, ci ha provato un esperimento tenuto presso la cappella affrescata da Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Durante l’esperimento, i visitatori sono stati sottoposti a rilevazioni biofisiche, per comprendere l’effetto che ha l’arte e la bellezza sul cervello e sui parametri vitali.

Nelle prime valutazioni di questo esperimento, si sono effettivamente notati degli effetti da esposizione alla bellezza, come un aumento della rilassatezza e un maggior coinvolgimento cerebrale, soprattutto durante stimoli sia visuali che sonori.

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La bellezza è un viaggio

Gli studi e le sperimentazioni riguardo alla Sindrome di Stendhal sono molto complessi, vista la rarità e l’impossibilità di prevedere una crisi e quindi di monitorarla.
Resta comunque il fascino di questo disturbo, che è un inno alla bellezza, alla sua potenza e alla sua capacità di turbare e scuotere l’animo umano.

Probabilmente, Stendhal e gli altri malati di bellezza come lui, altro non sono che viandanti capaci di immergersi fino in fondo in un’opera d’arte, riconoscendo qualcosa di sé e dei propri sentimenti nella forza di una pennellata, in una nota musicale o in una poesia particolarmente evocativa.

La capacità di identificarci con un artista, è la condizione fondamentale che ci permette di comprenderne, forse non appieno ma più profondamente, il suo lavoro.

Il viaggio che Stendhal stava compiendo attraverso il continente europeo, altro non è che il viaggio interiore che ognuno di noi compie, nel tentativo di trovare e fotografare la bellezza e abbandonarsi ad essa, lasciandoci abbracciare, sconvolgere e…salvare.

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I sei gradi di separazione e il mondo che si fa piccolo

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Nel 1929, lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy pubblicò un racconto breve dal titolo “Catene”, poche pagine di straordinaria preveggenza nelle quali spiegò la propria opinione sulla profonda evoluzione sociologica in atto in quegli anni.

“La rapidità con cui si diffondono le notizie e l’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più veloci ha reso il mondo più piccolo rispetto al passato. “E’ successo questo, quello, tutto, ma non era ancora successo mai che ciò che penso, faccio, voglio o desidero, che mi piaccia o no, possa venirlo a sapere, in pochi secondi, chiunque. E se voglio verificare qualcosa che è accaduto a mille chilometri da me, in pochi giorni posso trovarmi lì, di persona o con la mia parola, ed effettuare la mia verifica.”

È il primo accenno a quella che è divenuta famosa al mondo come la teoria dei sei gradi di separazione: la congettura secondo la quale ognuno di noi, a prescindere dalla provenienza geografica o l’estrazione sociale, è collegato a ogni altra persona del mondo attraverso una rete di conoscenze di soli 5 intermediari.

“Comunque, dalla discussione venne fuori un’idea interessante. Uno di quelli che vi partecipava propose un gioco per dimostrare che gli abitanti del globo terrestre sono molto più’ vicini l’uno all’altro, sotto molti punti di vista, di quanto lo siano stati nel passato. Dato un individuo qualunque tra il miliardo e mezzo di abitanti della terra, che vive in un posto qualsiasi, lui sosteneva di riuscire a mettersi in contatto con quell’ individuo al massimo attraverso cinque altri individui che si conoscessero tra loro personalmente.”

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La teoria del mondo piccolo

Per anni, quella di Karinthy è rimasta una bella e affascinante ipotesi da romanzo, che professava un mondo più piccolo e “intimo” di quanto i suoi abitanti fossero portati a pensare.

La svolta si ebbe negli anni ‘60, quando lo psicologo statunitense Stanley Milgram decise di implementare un esperimento sociale per confermare questa teoria attraverso una prova empirica e inconfutabile.

Milgram consegnò un pacchetto ad un gruppo di persone selezionate, chiedendo loro di spedirlo a un’altra persona situata nello stato americano del Massachusetts, dall’altra parte del paese. I soggetti scelti conoscevano il nome e la città di residenza del destinatario, ma non l’indirizzo preciso.

Lo psicologo chiese ai partecipanti di inviare il pacchetto a chi, tra le loro conoscenze, poteva essere in contatto con il destinatario o comunque viveva nella stessa area geografica.

I risultati dell’esperimento di Milgram furono stupefacenti e, a conferma di quanto profetizzato da Frigyes Karinthy, i gradi di separazione tra i mittenti e il destinatario sconosciuto risultarono essere in media 6.

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Una fitta rete di conoscenze

Nel corso degli anni, questo esperimento ha avuto tante repliche, in variabili più moderne, coinvolgendo più persone e utilizzando canali più potenti, come nel caso del test del professor Duncan Watts eseguito servendosi del servizio di posta elettronica.

Su questa pagina di Wikipedia invece, si propone una particolare versione della teoria, secondo la quale basterebbe cliccare sul primo link del corpo di qualunque pagina dell’enciclopedia digitale, per arrivare nel giro di 23 passaggi alla pagina “Filosofia”.

Ciò che né Milgram e tanto meno Karinthy potevano immaginare, era che da lì a qualche decennio sarebbe stata implementata una rete mondiale di interconnessioni che avrebbe drasticamente ridotto i gradi di separazione tra gli abitanti della terra, rendendo il mondo ancora più piccolo: i social network.

La struttura dell’internet ha potenziato e velocizzato le connessioni, sia tra le informazioni che tra le persone. I social network hanno portato questa evoluzione ai massimi storici, permettendoci di entrare in contatto con un numero infinito di persone, senza alcun limite geografico e temporale.

È del 2010 l’esperimento di due ricercatori dell’Università degli Studi di Milano che, in collaborazione con Facebook e sfruttando gli algoritmi sviluppati dal Laboratorio di Algoritmica per il Web dell’Ateneo, hanno scoperto che il grado di separazione – al giorno d’oggi- si attesta in media a 3,74.

La ricerca svolta dall’Ateneo milanese rappresenta il test più ampio mai eseguito sulla teoria dei sei gradi di separazione: Milgram, nel suo esperimento, aveva considerato un centinaio di possibili relazioni, contro i 65 miliardi di interconnessioni presenti attualmente sul famoso social network di Mark Zuckerberg e analizzate da quest’ultima valutazione.

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Siamo davvero così vicini?

A guardare i numeri e i risultati delle ultime ricerche sulla teoria del mondo piccolo, sembra davvero che i social network abbiano confermato una volta per tutte l’antico detto “tutto il mondo è paese”.

Ma le reti digitali di aggregazione sono davvero la propulsione che azzera le distanze tra gli individui?L’immensa e intangibile agorà che è il web, serve davvero a conoscere più persone e a stringere un maggior numero di relazioni? Secondo il numero di Dunbar, no!

Robin Dunbar è un antropologo britannico, professore a Hoxford, specializzato nello studio del comportamento dei primati.

Il numero di Dunbar è una misurazione teorica del limite cognitivo a cui il nostro cervello è soggetto quando si parla di stringere e mantenere relazioni sociali stabili con altre persone. Il professor Dunbar ha individuato uno stretto rapporto tra le dimensioni dell’encefalo dei primati e la grandezza dei gruppi sociali ai quali essi aderiscono.

I primati, così come gli esseri umani, avvertono il bisogno di contatto sociale, che nel caso dei nostri cugini è rappresentato dal cosiddetto social grooming: lo spulciamento che ha una spiccata connotazione sociale e che ha lo scopo di implementare la struttura associativa del gruppo.

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Gli studi di Dunbar hanno rilevato che, proporzionando le misure alla massa cerebrale del corpo umano, l’Uomo sia in grado di “tenere in vita”, in maniera stabile, un massimo di 150 rapporti sociali.

In accordo con quanto ipotizzato dallo studioso britannico, possiamo immaginare il cervello umano come un potente marchingegno capace di immagazzinare e processare una mole spropositata di dati. Un database in grado di memorizzare volti, nomi, colori e dettagli.

Ma come ogni meccanismo presente in natura, anche il nostro cervello ha dei limiti: può sicuramente ricordare i dati anagrafici e le informazioni riguardo a migliaia di persone, ma è incapace di creare e consolidare un legame intimo con ognuna di esse.

Ne consegue che, volendo ancora una volta dare fiducia a questa teoria del numero di Dunbar, saremo in grado di ricordare i nomi di tutti i nostri 2000 amici di Facebook o i 1000 followers di Twitter, ma molto probabilmente non saremmo capaci di tessere con loro un rapporto di amicizia che sia degno di tale definizione.

Questa incapacità non è figlia del disinteresse o della mancanza di empatia, ma di un oggettivo limite cognitivo del nostro “processore” che, per fare al meglio il suo lavoro, è costretto a risparmiare energie e risorse per i processi davvero importanti.

Blog, Evidenza, Società

L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

L’intima storia di “Black” dei Pearl Jam

Esistono creature che vanno accompagnate per la mano fino al successo.

Il compito di chi dà loro vita non finisce all’atto della creazione, ma continua con la dedizione e il sostentamento che permettono ad un essere fragile di camminare con le proprie gambe.

Questo vale per i film, i libri, le canzoni.

Allo stesso tempo esistono creature che, dal momento in cui vengono al mondo, sfuggono come sabbia dalle mani del proprio autore e cominciano a risplendere di luce propria.

Questa è la storia di “Black“, brano dei Pearl Jam contenuto nell’album d’esordio “Ten”, e di come sia divenuto un successo mondiale, nonostante la testarda opposizione del suo autore, Eddie Vedder.

È il 1993, due anni prima i PJ hanno dato alle stampe il loro primo album, nel pieno della potente e straripante onda grunge che da Seattle stava investendo gli Stati Uniti e il resto del mondo.

I dischi singoli estratti da “Ten” fino a quel punto erano ben 5: due versioni di “Alive”, la struggente storia di attualità del brano “Jeremy”, il pezzo rock da stadio “Even Flow” e la suadente “Oceans”. Ma il pubblico non era ancora sazio, e l’etichetta discografica non chiedeva di meglio che sfarmarlo con un’altra hit da classifica mondiale.

La canzone deputata a trasformarsi in un singolo di successo da passare in radio, non poteva che essere “Black”: la malinconica ballata rock scritta dal frontman del gruppo, che parla di un amore perduto e di un doloroso addio. Una delle canzoni più profondamente intime scritte dal musicista di San Diego, attingendo a piene mani da una sua storia d’amore finita male.

Non è difficile immaginare perché Vedder, alla proposta di pubblicare e promuovere per radio “Black”, si sia fortemente opposto, prendendo le redini decisionali del gruppo e ignorando le suppliche della casa discografica.

 

“Questa canzone parla della perdita (…) è fatta di emozioni troppo intime.”
Eddie Vedder

 

In un album composto da pezzi rabbiosi e cattivi in pieno stile grunge – come “Porch” e “Why Go” – la toccante storia di un amore finito, tra Vedder e una fantomatica fiamma adolescenziale, è un tuffo dritto al cuore del lonely songwriter e della sua più intima natura.

Il cantante dei PJ offre il meglio della sua capacità di storyteller, dopo aver raccontato l’orrore in “Jeremy “e le difficoltà di un rapporto instabile con i suoi genitori in “Alive”.

L’atmosfera che traspare dalle testo è grigia, malinconica e allo stesso tempo dolce, una sorta di spleen in musica e versi narrati dalla voce profonda e calda di Eddie.

 

eddie-vedder

 

Nonostante la volontà di Vedder di tenere sottotraccia questo suo capolavoro, “Black” negli anni ha vissuto di vita propria, diventando – pur non essendo mai stata pubblicata come singolo – un successo planetario e una delle canzoni più conosciute del gruppo di Seattle.

Non è raro che ai concerti il pubblico la richieda a gran voce, ricevendo a volte un gentile ma secco rifiuto da parte del cantante dei Pearl Jam.

 

“Certe canzoni semplicemente non sono fatte per diventare numeri.”
Eddie Vedder

 

Nell’articolo “Five Against the World” di Rolling Stone, è riportato un curioso aneddoto di cui sono protagonisti “Black” e il suo compositore:

 

“Una notte, mentre era seduto su una spiaggia deserta, contemplando la vita dopo la morte di un’amica, la chitarrista Stefanie Sargent delle “7 Year Bitch”, ha sentito delle voci provenienti dalla collina alle sue spalle. Cantavano “Black”, la canzone fragile che per Vedder era diventata il simbolo della commercializzazione della band. Aveva combattuto per evitare che fosse suonata in continuazione, non aveva voluto un videoclip della canzone. Vedder spuntò fuori dai cespugli e chiese a quei ragazzi di non cantare quella canzone.”

 

Per anni sono state rare le situazioni in cui il gruppo rock americano ha eseguito “Black”, e quasi sempre in situazioni più intime, lontano dal frastuono e dalla natura dispersiva dei grandi stadi.

A tutti gli altri fan della band e del grande songwriter in camicia quadrettata, non restava che accontentarsi di ascoltare questo capolavoro in loop, magari preferendo la versione ancora più viscerale del concerto unplugged del 1992 per MTV.

 

 

Il legame così stretto tra il leader dei Pearl Jam e la sua creatura, è la dimostrazione tangibile – semmai ce ne fosse bisogno – della sua doppia anima. La prima, cresciuta in un’adolescenza complicata e alimentata ad alcool e punk rock.

Un’anima sfociata in quelle pericolose arrampicate da capogiro sulle strutture dei palchi, gli stage dive-in e la vita da rockstar.

La seconda, più mite e romantica, è l’anima dell’uomo capace di scrivere brani come Just Breath, album come Into the Wild Soundtrack o Ukulele Songs e di impegnarsi attivamente per rendere il mondo un posto migliore.

Due facce della stessa medaglia, fatta di ombre e di luci, di gioia e di sofferenza, di bianco e soprattutto di nero.

Una storia, quella di “Black”, così personale e gelosamente custodita, ma allo stesso tempo così universale ed empatica, che viene da chiedersi se Vedder non abbia voluto donarla al mondo, per non sentirsi poi così solo.

 

“…the pictures have all been washed in black.”

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Credit to: https://it.pinterest.com/pin/431712314260612761/

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22 poster minimalisti di grandi film

Capolavori del cinema interpretati in chiave minimal

Un poster ha l’obiettivo di raccontare la storia e la grandezza di un film attraverso una sola immagine. Nello spazio di pochi centimetri bisogna attrarre lo spettatore e spingerlo ad andare al cinema.

I seguenti lavori sono una reinterpretazione minimale dei poster di alcuni dei più famosi film della storia e degli ultimi anni. Poche forme e colori che spesso rischiano di svelare il finale del film!


1.”Ritorno al Futuro” di Robert Zemeckis (1985)

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2. “American Psycho” di Mary Harron (2000)

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3. “8 e mezzo” di Federico Fellini (1963)

4. “Il cigno nero” di Darren Aronofsky (2010)

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5. “Il buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone (1966)

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6.”Fight Club” di David Fincher (1999)

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7.”Forrest Gump” di Robert Zemeckis (1994)

8.”Il Padrino” di Francis Ford Coppola (1972)

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9.”Inception” di Christopher Nolan (2010)

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10.”Interstellar” di Christopher Nolan (2014)

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11.”I soliti sospetti” di Bryan Singer (1995)

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12.”Memento” di Christopher Nolan (2000)

13.”Midnight in Paris” di Woody Allen (2011)

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14.”Moonrise Kingdom” di Wes Anderson (2012)

15.”Non è un paese per vecchi” dei Fratelli Coen (2007)

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16.”Shining” di Stanley Kubrick (1980)

17.”The Social Network” di David Fincher (2010)

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18.”Taxi Driver” di Martin Scorsese (1976)

19.”Il Grande Lebowski” di Joel Coen (1998)

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20.”Le avventure acquatiche di Steve Zissou” di Wes Anderson (2004)

21.”Trainspotting” di Danny Boyle (1996)

Trainspotting - 1996 - Danny Boyle

22.”Whiplash” di Damien Chazelle (2014)

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